Il lacerante rapporto tra padri e figli, il tema del potere, la solitudine e la follia, il crollo delle istituzioni e la disintegrazione della parola. Sono questi alcuni dei fili di quell’ordito possente e tragico del Lear di Shakespeare, scritto intorno al 1605, certamente il suo dramma più cupo, l’opera in cui tutto si dissolve. Se Amleto, nucleo fondante della coscienza occidentale, si dibatte tra l’essere e il non essere, il vecchio re Lear sceglie invece senza esitazioni il non essere e precipita nella disperazione di chi, deprivato del suo ruolo sociale e “ridotto” a essere umano senza apposizioni, perde, insieme al titolo, anche gli affetti, la ragione e il senso ultimo della vita.
Se il giudizio romantico e post-romantico ne sottolineava la “irrappresentabilità”, non stupisce che questa tragedia abbia incontrato soprattutto nel secondo Novecento e in questo inizio di millennio, tempi di crisi e guerre, esodi e paure, una notevole fortuna scenica, rappresentando, nel contempo, una sfida attoriale per i migliori interpreti del nostro teatro e di quello europeo.
Lavia re e regista con vigore
Dopo Branciaroli e Massimo De Francovich, Glauco Mauri, Giorgio Albertazzi e Roberto Herlitzka, per non nominarne che alcuni, ecco che si cimenta con quell’Everest del Lear uno degli ultimi “grandi vecchi” del nostro teatro, Gabriele Lavia, “costretto” a rivisitare questo Shakespeare dal direttore del Teatro di Roma che ospita il suo spettacolo all’Argentina fino al 22 dicembre. Torna, Lavia, al Re Lear cinquant’anni dopo l’edizione diretta da Giorgio Strehler in cui interpretava Edgar e lo fa oggi con un vigore e una prestanza fisica – alla bell’età di 82 anni, furbescamente dichiarata in scena – davvero eccezionali in uno spettacolo di cui è protagonista e regista con una prova magistrale, muscolare e roboante, che nel finale ritrova l’intimità del dolore paterno, ultima tappa della follia esistenziale che dal tutto del potere lo ha scaraventato nel nulla della perdita.
Tributo al mistero del Teatro
Il Re Lear di Lavia è uno spettacolo compiuto, di solida tradizione, con alcune brillanti prove d’attore tra cui spiccano Luca Lazzareschi nel ruolo di Gloucester e il Matto di Andrea Nicolini e alcuni giovani interpreti spinti dalla regia a puntare sempre sul vigore atletico e vocale. Uno spettacolo con punte di realismo quasi cinematografico (i duelli, l’accecamento di Gloucester, gli abbracci passionali tra le figlie di Lear con mariti e amante) che si rivela in primo luogo un profondo tributo al Teatro e al suo eterno mistero, un “farsi” tra attori e spettatori che, spiega Lavia, vuol dire “donarsi qualcosa da fare”:
la creazione di un luogo altro in cui l’anima si dispiega e i drammi del mondo diventano possibilità di conoscenza e, forse, di redenzione.
Ecco dunque non più la nera tenda-circo di Strehler, ma la scena imponente e altrettanto nera di Alessandro Camera ad occupare tutto il palcoscenico e sfondare con una passerella inclinata la quarta parete per dirci, con Shakespeare, che quel vecchio teatro buio, dismesso e polveroso, con sedie rovesciate, manichini, tendaggi e bauli da cui gli attori, entrando in scena, traggono gli sfarzosi manti dei loro personaggi, non è teatro, ma vita. Una vita precaria e sospesa, come le sorti del nostro teatro, d’altronde.
Una parola che inganna e uccide
In due lunghi atti (tre ore e mezzo la durata totale dell’adattamento) si dispiega l’inabissamento del vecchio Re verso la follia, il tradimento e la fine, sottolineati dallo scolorire progressivo di quei mantelli scintillanti d’oro che al crescere delle nefandezze umane perdono via via regalità e lucentezza. E’ nota la vicenda: stanco di governare, il re di Britannia Lear abdica per dividere il regno tra le figlie, decidendo le dimensioni del lascito in base alle dichiarazioni d’amor filiale. Goneril e Regan gli giurano affetto incondizionato, mentre Cordelia, la più piccola e la più amata, intenta a giocare con un piccolo teatro di marionette, non sa esprimergli in alcun modo la sua devozione. Comincia qui il tradimento della Parola che è uno dei fili rossi della tragedia, una parola che nasconde, tradisce, inganna, che non risana e uccide.
La demolizione di ogni ordine
Disobbediscono le figlie al patto firmato con il vecchio re, calunnia Edmund figlio illegittimo del conte di Gloucester tanto il fratellastro Edgar che il vecchio padre, tradiscono le nuove regine ogni regola di buon governo e di fedeltà coniugale: nel regno del “non essere” ogni ordine precostituito è stato demolito e ogni parametro del vivere regolato viene spazzato via dal furore di una tempesta che è morale e fisica, semantica e politica.
Accanto a Lear-Lavia ecco allora il Matto in uno dei fool più spericolati di tutta l’opera shakespeariana che tra il pianoforte stonato e l’organetto, lungo il filo dei doppisensi verbali, sarà il suo doppio fedele in ogni tappa di questa discesa negli inferi dell’umano abisso e dell’eterna lotta fra bene e male, verità e menzogna, lucidità e follia. Vestito solo di una tunica nera, nella scena finale costellata di cadaveri, Lear si accascia sul corpo di Cordelia invocando il pianto di tutto il pubblico in un estremo rispecchiamento tra il dolore della scena e quello del mondo: “Avessi io le vostre gole e i vostri occhi, urlerei e piangerei fino a mandare in frantumi la volta del cielo”. Sopravvivono Edgar, che pure ha attraversato il travestimento e l’esilio, e il vecchio Kent, accanto al suo re a qualunque costo.
Sono loro, testimoni dei pochi valori rimasti, la fedeltà e la lealtà, il rispetto per la vecchiaia, a portarci verso un futuro grave, quasi sconsolato che parla di noi più di qualunque telegiornale.