Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane
In che modo la cultura, l’ideologia e la follia alterano il nostro modo di abitare il mondo? Possiamo modificare il nostro modo di percepire ciò che è vicino o lontano? Esiste una distanza assoluta? Ce lo spiega il professore Michele Bracco con un saggio
Per descrivere il nostro essere-nel-mondo non possiamo limitarci a prendere in considerazione soltanto la distanza misurabile geometricamente. Quando entriamo in relazione con le persone e le cose, lo facciamo sulla base di condizionamenti culturali e ideologici, che chiamano in causa il lato più oscuro della nostra personalità, vale a dire la coscienza, intesa nella sua accezione fenomenologica. L’Esserci, secondo la terminologia heideggeriana, è situato sempre in un particolare contesto, in cui assolve un ruolo importante la spazialità esistenziale. È questa una delle principali considerazioni che fa Michele Bracco nel suo saggio Sulla distanza. L’esperienza della vicinanza e della lontananza nelle relazioni umane.
Attraverso un approccio interdisciplinare, che comprende studi antropologici, filosofici e psicologici l’autore ci spiega nel primo capitolo l’impatto che la cultura ha sulla nostra percezione degli spazi sociali. Dopo aver analizzato i lavori scientifici di Edward T. Hall, Bracco individua un limite negli studi antropologi sulla prossemica: la distanza culturale non coglie la profondità delle relazioni dell’uomo con il mondo. In termini fenomenologici possiamo dire che manca una definizione che sia capace di enucleare il modo autentico di relazionarsi dell’uomo con gli enti. Sulla scia del pensiero di Martin Heidegger, Michele Bracco sottolinea che l’uomo è in un rapporto esclusivo con il mondo, poiché, a differenza delle altre cose, lo abita e allo stesso tempo si prende cura dell’ambiente in cui è situato di volta in volta.
Questo implica il fatto che la spazialità non è soltanto posizionale, ma dipende dalla situazione esistenziale. Con il dis-allontanamento, una componente ontologica dell’Esserci, che non è condizionata da fattori culturali, biologici o psicologici, siamo in grado di far scomparire la distanza e quindi avvicinare l’ente, per poterlo utilizzare. Scrive Michele Bracco:
«Ciò che reputiamo vicino o lontano rappresenta ciò presso cui si sofferma, in modi e gradi diversi il nostro prenderci cura, sicché quando dico per esempio: «Questa cosa è vicino a me», ciò sta a significare che si trova “alla maggior portata” della mia cura, del mio interesse, e cioè di quella intenzionalità che orienta il mio orizzonte vitale».
Pertanto la distanza vissuta o esistenziale si colloca in un piano decisamente diverso da quello geometrico. Per fare un esempio, non dovremmo stupirci se in un contesto particolare, come quello scolastico, l’insegnante non riesce ad ottenere l’attenzione dell’alunno semplicemente accorciando la distanza fisica, entrando cioè nella “distanza intima”, perché è soprattutto nella coscienza intenzionale dell’alunno che «si esprime il suo libero e autentico essere interessato, il solo a decidere di quello che è per lui vicino o lontano».
Verso una cura della distanza
La distinzione fra distanza geometrica e distanza vissuta è stato un argomento di studio anche della psichiatria fenomenologica. In particolare Eugène Minkowski ha spiegato come nella schizofrenia viene meno la distanza originaria fra l’Io e il resto del mondo. L’individuo smarrisce la differenza fra il dentro e il fuori. Ma evidenti trasformazioni fenomenologica nella distanza vissuta si riscontrano anche nei casi di depersonalizzazione, di delirio e di ossessione.
Tuttavia con la cura del dialogo e con l’amore «le persone possono riprendere a esistere in modo autonomo, stagliandosi dallo sfondo oscuro e magmatico di ciò che appare indifferenziato e caotico».
Il vero amore ci consente di violare il principio della impenetrabilità dei corpi, la parola d’amore «può contribuire a colmare quella “distanza mancata” che impedisce ai mondi chiusi del sospetto e della disperazione di aprirsi all’orizzonte infinito della fiducia della speranza, e con questo alla possibilità dello stesso incontro».
La distanza biopolitica
Dopo lo spazio culturale e lo spazio vissuto, l’autore introduce lo spazio ideologico, che, a differenza della prossemica e delle fenomenologia, prende in considerazione i rapporti fra tutti i possibili corpi, non solo quelli umani, e il modo in cui il potere tramite la distanza riesce ad assoggettarli e a punirli in caso di trasgressione. Questo tipo di spazio è quello in cui «ciascuno di noi è già da sempre inserito e coinvolto, consapevolmente o meno, in una distribuzione o dislocazione dei corpi che non è affatto accidentale, ma che risulta funzionale alle logiche e alle esigenze dei diversi poteri». Il corpo viene classificato, marchiato, definito e più in generale dominato dall’economia, dalla politica, dalla morale, dalla religione, dalla tecnica. Per avere una visione più chiara del significato di questo particolare spazio, basterebbe pensare al modo in cui la grande economia globale decide di trasformare i corpi in merci, e a quali scambi e contagi devono essere sottoposti per garantire il massimo profitto.
È estremamente importante allora riuscire a prenderci cura dei corpi, criticando quei poteri che non impongono soltanto dei limiti e delle chiusure, ma tramite le aperture potrebbero renderci funzionali alle logiche di dominio e controllo planetario.
Il volto dell’altro e la responsabilità assoluta
Nell’ultimo capitolo del libro, Bracco si chiede se possa mai esistere una prossimità originaria, che non sia quella spaziale e intenzionale della coscienza, che precede l’atto conoscitivo e la socialità. In linea con il pensiero di Emmanuel Lévinas, Bracco vede nell’incontro con l’altro, nel volto dell’altro, nel faccia a faccia, la possibilità di sperimentare tutto il nostro potere e allo stesso tempo anche la nostra impotenza: «Guardando l’altro negli occhi, il suo volto spalanca davanti a me la dimensione di un infinito che manda in crisi la supremazia del mio io, e, con essa, la violenza del mio potere».
L’altro non cade mai in mio potere e non si lascia nemmeno inglobare in schemi, generi, ordini. Anche le parole risultano inadeguate per definirlo. In esso vi è sempre una eccedenza di senso che non si può classificare e che allo stesso tempo lo rendono unico.
La prossimità dell’altro comporta una responsabilità assoluta nei confronti dei propri simili e delle cose che lo circondano. Una responsabilità che è antecedente a qualsiasi valore e accordo ed è indipendente dalla volontà di ciascuno.
Guarda l’intervista al filosofo francese Emmanuel Lévinas
Saperenetwork è...
- Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.
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