

«Quello che viene proposto è, se si vuole, un ritratto; ma questo ritratto non è psicologico, bensì strutturale: esso presenta una collocazione della parola: la collocazione di qualcuno che parla dentro di sé, amorosamente, di fronte all’altro (l’oggetto amato), il quale invece non parla». Così Roland Barthes introduceva la lettura di Frammenti di un discorso amoroso, nel 1977. Il saggio più celebre del semiologo francese era suddiviso in 80 voci in ordine alfabetico, da abbraccio a cuore, passando per dedica, incontro, notte etc. Frammenti, appunto, grazie ai quali lo studioso, attraverso una serie di riferimenti letterari, storici, culturali, da Platone a Goethe, da Stendhal a Freud, si immergeva nel glossario dell’amore, (de)costruendo un discorso che partiva dal linguaggio e non poteva che essere, a parere di Barthes, frammentario come la stessa struttura amorosa.
Tutto sull’amore, e forse anche di più
Oltre vent’anni dopo, nel 2000, bell hooks, scrittrice, attivista, accademica afro americana nata nei primi anni ’50 nel Kentucky, cuore del Sud segregazionista, dà alle stampe Tutto sull’amore: nuove visioni. Pubblicato in Italia per la prima volta da Feltrinelli e poi in una nuova edizione curata da Maria Nadotti, nel 2022, da Il saggiatore, a pochi mesi di distanza dalla morte della hooks, è un saggio più che mai attuale. È anzi, necessario oggi più che mai; non (solo o unicamente, se non altro) in prossimità di ricorrenze commerciali come quella dedicata all’incolpevole martire di Terni, ma perché viviamo in tempi in cui, come forse non accadeva da decenni, la parola, il discorso (per dirla con Barthes) sull’amore è deteriorato, calpestato, imputridito da un lato da un’iconografia consumistica cafonamente leziosa, dall’altro parallelamente ignorato, ricoperto di cinismo e pochezza, dalla politica, dalle scelte di chi ci governa (e che, almeno nei paesi ancora democratici, abbiamo scelto), dalla tecnologia, dai media e dai social media.


Nuovi frammenti di un discorso amoroso
Quando bell hooks inizia a scrivere il libro, alla fine degli anni ’90, come spiega introducendo il suo personale discorso amoroso, è spinta dalla constatazione che all’amore aneliamo tutti, anche quando crediamo o sentiamo di non avere alcuna speranza di trovarlo. Ma nessuno, o quasi nessuno, sembra nutrire un interesse intellettuale per l’argomento, ossia nessuno sembra sforzarsi di capire il significato di una parola (tornando a Barthes) che lasciata allo sbaraglio assume un aspetto lezioso, sdolcinato, banalmente associato alla cultura pop (anche se su questo aspetto, sulla separazione tra alto e basso, la stessa hooks ha molto da dire). Manca, in un contesto culturale dove, scrive hooks, vige sempre più un crescente disamore, una ricerca filosofica condivisa, che vada oltre stereotipi e prototipi secolari, commercializzati dal sistema capitalistico.
Dal margine al centro, scardinando certezze
La studiosa afroamericana spiega di aver deciso di dedicarsi al tema anche perché donna e nera: due categorie a cui paradossalmente non si dà credito in materia. Dalle donne ci si aspetta che parlino d’amore solo e unicamente in senso sentimentale, che disquisiscano di relazioni di coppia, di rapporti con i figli, di maternità. Dai neri ci si aspettano discorsi sul razzismo, sulle ingiustizie sociali, sulla povertà, così come ci si aspetta che sappiano danzare, eseguire e comporre determinati tipi di musica, riuscire bene negli sport. Rifiutando di soccombere nelle aspettative usuali determinate dall’appartenenza a queste due categorie, hooks sposta il discorso dal margine al centro, come il titolo di un altro suo celebre saggio, scardinando confini prestabiliti.
Nuove visioni
Gli anni in cui hooks elabora Tutto sull’amore non sono ancora quelli dell’iper connessione; internet esiste già da tempo ed è già di dominio pubblico, ma non ci sono ancora gli smartphone né tantomeno i social network. Le sdolcinature sul “discorso amoroso” sono dunque ancora ben lontane dal bombardamento di cuori e cuoricini, reel, selfie, foto su foto, status, profili di coppia, citazioni prese a caso e lanciate nell’etere di Meta, spesso attribuite erroneamente a incolpevoli letterati. Sono ancora quelle, viste con gli occhi di oggi, più “semplici”, apparentemente meno pervasive di pubblicità e vetrine dei negozi, film blockbusters e canzoni orecchiabili. A fronte di quello che è (all’epoca soprattutto negli Usa, oggi possiamo dire ovunque) il trionfo di una logica di mercato applicata ad una visione monolitica della vita, la studiosa è convinta (come d’altronde lo era Barthes) che fare ricerca per definire, andare a fondo, dare un significato al significante, a una parola usata e abusata, serve non solo per capire, ma per cambiare, andando incontro a quelle “nuove visioni” sottotitolo e parte integrante del volume.


Di cosa parliamo quando (non) parliamo d’amore
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, se lo chiedeva nel 1981 anche Raymond Carver, nei 17 racconti che lo resero autore di culto. Le storie minimali di Carver sono pervase da un significato intersezionale, qualcosa che esiste anche se non viene nominato, o anche se apparentemente si parla di tutt’altro; che si tratti di un pasticcere a cui non è stata ritirata una torta ordinata, di coppie stanche, di un bambino investito da un’auto. Senza citare il grande scrittore, hooks compie inconsapevolmente lo stesso percorso, in chiave scientifica e accademica, ma con stile carveriano, diretto, semplice, lineare. Di cosa parliamo, quindi, e cosa significa l’amore? «Ho deciso di dedicarmi “scientificamente” al tema dell’amore perché senza amore, senza un’etica dell’amore non può esserci giustizia sociale», spiega hooks alla curatrice Maria Nadotti, come riportato nella postfazione. Per hooks la definizione dell’amore è quella data dallo psichiatra americano M. Scott Peck; la volontà di estendere il proprio sé al fine di favorire la crescita (spirituale, ma in senso totalmente laico) propria oppure di un’altra persona. Per Peck si cresce spiritualmente unicamente quando “io” diventa “noi”, ossia quando si è in grado di pensare sinceramente e senza tornaconti personali agli altri; aldilà della coppia, al mondo, al Pianeta come organismo unico di cui tutti facciamo parte.
Abbattendo monoliti
Da qui, da questa necessaria simbiosi tra “io” e “noi”, hooks parte per analizzare capitolo dopo capitolo la necessità di impegno, giustizia (la più alta forma d’amore, semplicemente perché senza giustizia non può esserci amore, scrive), chiarezza, comunità. Come Barthes divide il libro in capitoli dedicati a parole chiave (le già citate chiarezza, giustizia, comunità, impegno, e poi ancora perdita, guarigione, valori etc.). Sono capitoli brevi, concisi, nei quali scardina, con leggerezza, monoliti, come avrebbe detto un’altra grande intellettuale sua coeva, Joan Didion: la sua è un’analisi sociale, che rifiuta la banalizzazione dell’amore associato necessariamente ai rapporti sentimentali oppure a quelli di sangue. La privatizzazione degli affetti, scrive hooks, conseguenza dell’individualismo sfrenato e del culto del denaro, è stata ed è fallimentare. Le conseguenze su larga scala di questa chiusura egoistico-narcisistica sono l’esclusione sociale, l’aumento delle diseguaglianze, l’insicurezza, oltre che la disfunzionalità e la codipendenza dei legami considerati “primari”, quelli, appunto, basati sulla consanguineità, sull’appartenenza allo stesso nucleo o sul legame sentimentale.
Ripartire dai bambini
Quello di hooks è un invito ad allargare la visione, abbattendo stereotipi: ai bambini (nel libro si parla molto di bambini) viene erroneamente insegnato sin da piccoli che le amicizie non sono importanti, almeno non quanto i legami di sangue o quelli sentimentali. Eppure, nota hooks, è proprio nelle amicizie, ossia nelle famiglie scelte e non avute in destino, che la maggior parte dei bambini, e quindi di noi, ha imparato ad amare. Sono le amicizie, ossia i legami che travalicano le imposizioni del sangue o i tornaconti sessuali-sentimentali, i territori in cui più è probabile una crescita personale, proprio in virtù della scelta disinteressata.
Scritto anni prima che i gigacapitalisti rivelassero il loro vero volto dietro la maschera da filantropi progressisti, quando ancora non era immaginabile vedere un Elon Musk fare saluti romani poco prima di smantellare, in qualità di neo direttore del Dipartimento dell’efficienza governativa il già esiguo stato sociale statunitense, hooks scrive che è nell’infanzia che si impara ad amare, spesso proprio grazie alle amicizie. «Il nucleo famigliare privato è l’unica sfera di potere istituzionalizzata che può essere tranquillamente autocratica e fascista».


Ecosistemi comunitari
L’importanza del libro di hooks sta, quindi, soprattutto nel suo associare la parola amore alla parola comunità, intesa come qualcosa di ben più largo della famiglia nucleare o dei propri vicini di casa. Un concetto eco-sistemico che la studiosa attribuisce a uno sconfinamento etico, in grado di includere tutte le forme di vita esistenti sul Pianeta. È il neo-liberismo economico, scrive hooks, ad averci spinto all’ossessione del privato, e quindi al non vedere che gli interessi dei singoli sono necessariamente legati a quelli della società, degli altri individui. Pensiamo che distruggere il Pianeta non sia affar nostro, perché intimamente convinti che non ne risentiremo, e che a pagare in futuro saranno “i figli degli altri” e non “i nostri figli”, espressione quest’ultima, tra le più mostruose mai usate, purtroppo anche nella retorica progressista spesso intimamente impregnata di credenze familiste e individualiste. Lontana dalla leziosità e dal folklore (spesso prezzolato) delle teorie e delle pedagogie New Age, hooks parla di etica sfatando il mito individualista secondo cui chi vive eticamente è un ingenuo, destinato a soccombere, sottolineando come egoismo (sano) e altruismo devono essere due facce della stessa medaglia.
Sfatando il mito della coppia
Quasi un ventennio prima dell’ascesa al potere di Trump e dei populisti, l’autrice di Il femminismo è per tutti, sfata il mito della coppia a tutti i costi come conditio sine qua non per essere felice e accettati dalla società. Non ha fatto in tempo, hooks, a sentire le demenziali considerazioni dell’attuale vicepresidente J.D. Vance su zitelle e gattare senza figli, e menomale per lei, che nel Duemila sottolineava la necessità della solitudine feconda, condizione fondamentale per saper stare con gli altri senza usarli come strumenti. Un messaggio rivolto soprattutto alle donne, da sempre ovunque condizionate e pressate a far parte di una coppia e a ricoprire obbligatoriamente la funzione riproduttiva. Saper stare soli e sole, scrive hooks, è l’unico modo per entrare in connessione vera con gli altri e quindi godere dei benefici del vivere in una comunità. Perché, aldilà della “paccottiglia pseudo spiritualista New Age” (come scrive Maria Nadotti nella postfazione), dei cuori ossessivi, delle foto di coppia sui social; «Se consideriamo l’amore come il desiderio di alimentare la crescita spirituale mostra o altrui, attraverso attenzione e rispetto, conoscenza e assunzione delle proprie responsabilità, l’essenza di ogni nostro amore è la stessa. Non esiste un amore speciale riservato esclusivamente ai propri partner sentimentali».