Alla Fiera dell’Est. “Wet market” e rischio di epidemie

Un wet market in Cina (Foto: Unsplash)

Alla Fiera dell’Est. “Wet market” e rischio di epidemie

Il parere degli scienziati è pressoché unanime, all’origine della pandemia da Covid-19 ci sarebbe il consumo e il traffico di animali selvatici, i cui parassiti hanno compiuto un salto di specie, come già accaduto con la Sars. Un problema anche economico perché grazie a questo commercio si sfamano molte persone

Polli interi spennati, appesi con tanto di testa e becco. Serpenti vivi, tartarughe, cicale, porcellini d’India, tassi, lontre, ricci. Sono le immagini dei “wet market”: i mercati informali che offrono prodotti agricoli e carne fresca, spesso di animali selvatici, macellando sul posto gli animali vivi e vendendone le carni nelle città della Cina e di tante altre parti dell’Asia e dell’Africa. Un incubatore di infezioni emergenti che, secondo alcuni, andrebbe chiuso per sempre.

Oggi è sulla bocca di tutti il mercato di Wuhan, in Cina, dove pare abbia avuto origine la pandemia di Covid-19, e che vende, fra gli altri, ratti e salamandre, scorpioni e scoiattoli, zibetti e tartarughe, e persino cuccioli di lupo. Mentre altrove, in Africa, si vendono anche scimmie, pipistrelli, uccelli e insetti di ogni genere.

Una simile commistione di animali selvatici ed esseri umani, in condizioni igieniche spesso precarie, è un terreno perfetto perché i parassiti degli animali facciano il salto di specie e infettino l’uomo. Come del resto, prima dell’attuale pandemia, era già accaduto con la SARS.

Guarda il video di un mercato in Cina

Il divieto temporaneo

Non sorprende, quindi, che all’emergere del nuovo coronavirus le autorità cinesi abbiano chiuso il mercato di Wuhan e gli altri simili in tutto il paese, e poco dopo abbiano proibito temporaneamente di commerciare e mangiare animali selvatici vivi, eccetto quelli acquatici. «Pechino dovrebbe rendere il divieto permanente», ha scritto il Wall Street Journal. In sintonia, per una volta, con parecchi gruppi ambientalisti.

Come osserva la Wildlife Conservation Society in questi mercati si commerciano roditori, portatori di moltissimi patogeni; pipistrelli, particolarmente capaci di diffondere i germi dato che volano e che non risentono più di tanto delle infezioni grazie al loro particolare sistema immunitario; e primati, pericolosi per la loro affinità alla nostra specie, basti pensare che dalle scimmie è venuto, per esempio, l’Hiv umano.

Si stima che mammiferi e uccelli selvatici ospitino centinaia di migliaia di virus potenzialmente pericolosi per l’uomo.

E nei wet market questi animali sono tenuti «in aree affollate dove un mix di saliva, sangue, urina e altri liquidi corporei entrano a contatto con venditori e consumatori», generando «uno dei più deleteri ponti costruiti dall’uomo a oltrepassare le barriere naturali che un tempo separavano umani e animali selvatici».

Uno studio su soli 7 mercati, per esempio, ha trovato che vi erano venduti mammiferi selvatici di 12 famiglie capaci di ospitare 36 diversi patogeni in grado di infettare l’uomo.

Perciò Christian Walzer, direttore esecutivo dei programmi di salute della Wildlife Conservation Society, ha chiesto di chiudere questi mercati, rafforzare il contrasto al traffico di fauna selvatica viva, e sforzarsi di modificare le abitudini alimentari dei consumatori. La soluzione ultima, osserva l’associazione, è ridurre la domanda di animali selvatici cambiando le norme culturali al riguardo. Un’operazione facilitata dall’attuale pandemia, che in Cina ha già ridotto molto l’appeal di questi alimenti: un’indagine ha mostrato che se nel 2014 solo metà dei cinesi era contraria a mangiare animali selvatici, oggi lo è il 97% degli interpellati.

 

Christian Waltzer, professore esperto di animali salvatici
Christian Waltzer, direttore programmi salute della Wildlife Conservation Society

Antropologia e necessità di cambiamento

Non tutti però concordano con queste posizioni. Innanzitutto, secondo alcuni studi i nessi tra mercati informali e infezioni emergenti non sono così netti come spesso si pensa, e il vero problema è il traffico di animali selvatici, che avviene non solo a scopo alimentare ma anche per usarli come trofei, per presunte proprietà medicamentose, per rituali e per altri impieghi.

«Chiudere i wet market cinesi sarebbe un terribile errore» hanno dichiarato per esempio gli antropologi Christos Lynteris, della University of St Andrews, e Lyle Fearnley, della Singapore University of Technology and Design, che hanno studiato a lungo le malattie zoonotiche in Cina.

 

Secondo l’opinione dei due antropologi, i racconti folkloristici e raccapriccianti di questi mercati così in voga sui media occidentali, proporrebbero una visione orientaleggiante e spesso venata di sentimenti anti cinesi, fatta apposta per colpire. Sempre a loro avviso, articoli come quello del Wall Street Journal metterebbero spesso insieme immagini di mercati diversi, dando un’idea distorta di come funzionano e cosa vendono, e ignorando le vaste differenze culinarie regionali. In questo modo alimenterebbero  il disgusto, coniugando la paura dei virus con quella della potenza emergente della Cina e della sua cultura irriducibilmente diversa, di cui il cibo diviene un’icona: i mercati diverrebbero allora «versioni caotiche dei bazar orientali, aree senza legge dove animali che [secondo i nostri canoni] non dovrebbero essere mangiati sono venduti come alimenti, e quel che non dovrebbe essere mischiato viene messo insieme».

Si tratterebbe, secondo Lynteris e Fearnley, di un’immagine del tutto erronea, che dà un’idea distorta dei “wet market”, un termine ombrello che mette insieme realtà molto diverse, di solito molto meno esotiche. E le differenze sono cruciali per valutarne la pericolosità: differenze di dimensioni , di prodotti venduti (animali vivi, solo carni e vegetali, solo pesce e altri animali marini) e di provenienza degli animali, selvatici o d’allevamento.

La gran parte degli animali infatti, inclusi quelli per noi più strani come rane e serpenti, provengono in realtà da allevamenti. Che sono stati la soluzione trovata di molti allevatori – il cui punto di vista è spesso ignorato in questi discorsi, come quello dei venditori – alla concorrenza insostenibile degli allevamenti industriali nel settore delle carni tradizionali, quali suini e pollame.

Inoltre, sebbene informali, questi mercati non sono senza regole, perlomeno in Cina, dove dopo l’epidemia di Sars ricevono ispezioni regolari delle autorità sanitarie.

Oltre la cultura, l’aspetto economico

In ogni caso, questi mercati sono una fonte di cibo essenziale per gli abitanti di molte città. Specialmente per milioni di poveri che vi abitano. Perciò, se chiuderli temporaneamente può essere utile, tentare di abolirli  avrebbe un impatto enorme sulla vita quotidiana di moltissimi cinesi e con tutta probabilità otterrebbe il solo esito di trasferire il commercio in clandestinità, come già era accaduto in Cina ai tempi della Sars. Peggiorando così ulteriormente l’attenzione all’igiene e i rischi per la salute pubblica.

Anche la Wildlife Conservation Society, del resto, riconosce che per ridurre davvero questi traffici bisognerà offrire un’alternativa concreta sia ai consumatori sia ai produttori le cui vite dipendono da questi commerci, creando per loro nuove opportunità economiche.

Quel che ci vuole ora, sostengono ancora i due antropologi, non è vietare questi commerci ma sottoporli a una regolamentazione serrata, basata sulla realtà variegata di queste diverse attività e sulle conoscenze scientifiche. Come quella appena giunta da uno studio dell’Università di Hong Kong che mostra come alcuni pangolini, importati di contrabbando in Cina, contengano coronavirus abbastanza simili a quello che sta causando l’attuale pandemia.

Guarda il video sul pangolino

La similitudine non è così forte da dimostrare con certezza che il virus pandemico provenga dal pangolino, che potrebbe aver fatto da ospite intermedio fra i pipistrelli e l’uomo. Indica comunque che i pangolini sono un’altra importante fonte di coronavirus patogeni e andrebbero quindi «maneggiati con cura» dall’uomo. E magari banditi dai mercati.

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Giovanni Sabato
Giovanni Sabato
Genetista di formazione, lavora come giornalista e comunicatore scientifico dopo aver conseguito un Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. È stato redattore di “Tempo Medico”, ha scritto articoli per “L’Espresso” e il “Corriere della Sera” ed è stato coordinatore editoriale del bimestrale “Darwin”. Oggi lavora come free lance, collaborando tra l’altro con “Le Scienze”, “Repubblica”, “Mind” e “Rocca”.
Si interessa in particolare delle intersezioni tra scienza e diritti umani.
Ha pubblicato fra l’altro i libri “L’officina della vita” (Garzanti, Milano, 2002) e “Come provarlo? La scienza indaga sui diritti umani” (Laterza, Roma-Bari, 2010).

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