A Vittoria (RG), si trova il secondo mercato italiano dell’ortofrutta alla produzione: uno dei più grandi d’Europa. Da qui transitano ingenti quantità di prodotti che arrivano sulle tavole degli italiani. Il mercato ha un’estensione di 246.000 mq. Di questi, 15.000 sono coperti.
Le imprese che vi lavorano sono 74, per un totale di circa 1200 addetti e un fatturato complessivo che supera i 350 milioni di euro. I produttori censiti che conferiscono regolarmente alla struttura mercatale vengono stimati in 6.000.
E dunque? Spostandosi da Pachino a Porto Empedocle, circa 200 km, soprattutto in prossimità della fascia costiera, è un susseguirsi e in alcuni tratti una fitta e inestricabile trama di serre: migliaia e migliaia di km2 di coperture in teli di plastica. Il paesaggio, in tal modo, si presenta a due colori dominanti: l’azzurro del mare e il bianco delle serre. Alcuni frammenti di terreno libero da coperture, il verde di carrubi e fichi d’india, e, prospiciente la sabbia (colore della paglia…in riva al mare antico di Grecia… [dove] Eschilo esule misurò versi e passi… A un poeta nemico, Salvatore Quasimodo) una teoria di seconde case: cemento in bella vista in vista del Mediterraneo, l’ennesimo segno del benessere acquisito. Sì, ma come?
Qui entra in ballo la serricoltura che ha profondamente modificato paesaggio, economia, società. Suggerisco, per inquadrare la questione, il volume collettivo La fascia trasformata del ragusano. Diritti dei lavoratori, migranti, agromafie e salute pubblica, edito da Sicilia Punto L Edizioni (2021). Nella fascia trasformata, chilometri di serre producono ortaggi in qualsiasi periodo dell’anno: pomodori, zucchine, melanzane, cetrioli, nonché diverse qualità di frutta.
Le caratteristiche geo pedologiche (suoli per lo più sabbiosi) e quelle climatiche (tra cui l’elevata incidenza delle radiazioni solari), hanno consentito l’esplosione di tale pratica agronomica, con inevitabili impatti ambientali: substrati esausti, plastica (gestione e smaltimento), lisciviazione di nitrati, fosfati, captazione e distribuzione idrica, ecc.
L’inquadramento storico di Pippo Gurrieri, coautore del volume sopraccitato, fornisce numerosi spunti di riflessione: «Se nell’anno zero (1960/61) le colture protette raggiungevano appena i 34 ettari, dieci anni dopo gli ettari occupati erano 2.000, le serre 18.800 e gli addetti superavano i 10.000. Si trattava prevalentemente di piccole aziende a conduzione familiare». Quella che viene denominata “agricoltura protetta” ha rapidamente il sopravvento su quella tradizionale.
Prosegue Gurrieri: «Prende slancio un importante indotto nei settori del legno e della plastica, del gas per riscaldamento, delle torbe e dei concimi, delle sementi e dei vivai, del trasporto privato, degli affari bancari e notarili (…); ma se migliaia di braccianti e contadini poveri e semi-poveri transitano alla condizione di padroncini, o in quella di compartecipanti, tutti sono parte di un’attività basata sull’autosfruttamento di sé e della propria famiglia. Ciò è all’origine di lotte continue e pressanti per ottenere migliori condizioni, a partire dal contratto di compartecipazione che definirà gli oneri spettanti ai proprietari in materia di spese per sementi, concimi e anticrittogamici nella misura del 50%, e il 100% delle spese per l’impianto delle serre, la motoaratura e il carburante, oltre a importanti diritti per i lavoratori: assistenza sanitaria, assegni familiari, indennità di disoccupazione (conquiste a lungo rimaste sulla carta). Successivamente si aggiungeranno anche l’acqua per l’irrigazione, i pali e le palizzate».
Accade così un iper produttivo e inatteso miracolo «nei primi anni Sessanta, di ben 5.000 aziende e una crescente ricchezza diffusa la cui principale manifestazione sarà un esteso e incontrollato “mercato” edilizio che farà nascere nuovi quartieri abusivi, del tutto privi di servizi essenziali (acqua, fogne, strade), dove i “pumarurari” e tutti gli altri arricchiti, investono le loro risorse, prima di spostarle sulla fascia costiera in seconde case e ville che stravolgeranno i villaggi e il litorale».
«Oggi – prosegue Gurrieri nella sua articolata e lucida analisi storica e sociale – circa la metà degli occupati in agricoltura in Sicilia sono stranieri, in gran numero rumeni e tunisini; staccati gli albanesi.
«Nelle serre, dove la manodopera non italiana si aggira attorno alle 20.000 unità, dal 2007 la concorrenza dei rumeni, che accettavano 10/15 euro al giorno, s’imponeva sui maghrebini, che avevano conquistato i 25/30 euro e cominciavano ad assestarsi in quanto a diritti riconosciuti, pur rimanendo tutti ancorati a ritmi di sfruttamento molto alti: per quelle cifre si era costretti a stare nella serra anche 12/14 ore (…); il lavoro nero si aggira sul 60%, ed è affiancato da quello “grigio”, che vede dichiarare solo la quantità di giornate sufficienti a poter godere della disoccupazione, la quale, si trasforma in un’elargizione padronale. Nella fascia trasformata si assiste ad un grande business di illegalità sulle spalle dei braccianti, in cui entrano in gioco caporali, padroni senza scrupoli, e un sottobosco di soggetti indispensabili ad assicurare la copertura al sistema».
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Il fenomeno, come è intuibile, si espande a macchia d’olio, andando ben oltre il comparto che: «subisce anche lo strapotere della grande distribuzione, che realizza margini di profitto stratosferici, vendendo i prodotti con rincari anche del 400%, dopo averli acquistati a 30/40 centesimi al chilo. Anche l’indotto è coinvolto nel disastro.
I produttori, per resistere, sprofondano il coltello sui nuovi schiavi, abbassano le paghe giornaliere, accentuando il lavoro nero, instaurando rapporti anche violenti, all’interno dei quali si dispiega un particolare accanimento verso le donne immigrate, in balìa di soggetti che controllano le loro vite, fenomeno questo particolarmente sviluppato all’interno dei magazzini di confezionamento, dove a salari di fame e orari impossibili (dall’alba al tramonto, e anche più) si affiancano livelli di violenza (anche sessuale) e schiavitù estremamente pesanti».
Dopo chilometri bianchi e assolati, un ristorante costiero invita alla sosta. La cucina siciliana è l’apoteosi del gusto e della stratificazione di feconde popolazioni che si sono avvicendate dalla notte dei tempi, ciascuna con le sue meraviglie culturali e colturali: qui si assapora la Storia, anche quella recente, anche quella delle serre, delle mani che hanno raccolto il pomodoro che riempie la terra di rosso e «scorre per le strade il succo» (Ode al pomodoro, Pablo Neruda).