Bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno? La domanda emerge ogni volta (e ormai abbiamo perso il conto…) che si conclude un vertice sul clima. La retorica prevede che la discussione giunga sul punto di rottura, poi che i lavori si prolunghino per una o due notti extra-time. E alla fine la montagna partorisce il topolino. Eccolo qua il film della Cop27 che si è appena conclusa a Sharm el-Sheikh: il documento finale (qui nell’ultima versione resa disponibile) riconosce l’obiettivo di mantenere l’innalzamento delle temperature entro 1 grado e mezzo rispetto ai livelli pre-industriali, dunque un passo in avanti rispetto a quanto stabilito lo scorso anno a Glasgow, coerente con il limite più coraggioso previsto sette anni fa dall’Accordo di Parigi. Per riuscirci però bisogna che si riducano le emissioni del 43% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019. Dunque si invitano i paesi (“calls upon” recita l’originale, espressione piuttosto blanda) ad aggiornare entro il 2023 i propri target di de-carbonizzazione visto che con quelli attuali si arriva soltanto ad un misero 0,3%.
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Sussidi nel mirino
Si ribadisce inoltre la necessità accelerare «lo sviluppo, la distribuzione e la diffusione delle tecnologie e l’adozione di politiche per la transizione verso sistemi energetici a basse emissioni» anche attraverso «l’eliminazione graduale delle sovvenzioni inefficienti ai combustibili fossili», passaggio non da poco visto che si mettono nel mirino i famigerati e antistorici sussidi a carbone e petrolio. Ma l’accordo esplicita soltanto l’obiettivo (chiamiamolo così…) di «ridurre» la produzione elettrica a carbone di cui non siano abbattute le emissioni, non di eliminarla. Anche nel capitolo sull’adattamento gli auspici non mancano: si prende atto (come se lo scoprissimo oggi) del divario tra gli attuali livelli di adattamento e quelli che servirebbero per rispondere agli effetti negativi del cambiamento climatico. Perciò si esortano i paesi più ricchi ad agire sul fronte della resilienza accelerando il trasferimento di tecnologia verso quelli più poveri perché si migliori la loro capacità in questo campo, con particolare attenzione verso la salvaguardia delle risorse idriche e degli ecosistemi ad esse collegati.
“The establishment of a #LossAndDamage fund is not charity. It is a down payment on our shared futures. It is a down payment on #ClimateJustice.” H.E @sherryrehman of #Pakistan on behalf of the G77 and China at the Closing Plenary of #COP27. pic.twitter.com/utCXZBdu5U
— Loss and Damage Collaboration (L&DC) (@LossandDamage) November 20, 2022
La posizione dell’Ue
È evidente, insomma, come a Sharm el-Sheikh sia andato in scena l’ennesimo braccio di ferro sui tempi e i modi della transizione ecologica, sbandierata a più riprese sul piano dei principi, fra paesi che coltivano di fatto interessi contrapposti. A partire delle nazioni produttrici di greggio che tenevano di fatto il banco della Cop e dai grandi emettitori, Cina in primo luogo, che lasciano ancora molto, troppo spazio all’utilizzo dei combustibili climalteranti. Tanto da far tuonare l’Unione Europea, che almeno sul clima rimane un baluardo affidabile, orientata verso obiettivi più coraggiosi, tramite le voce del vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans:
«Quello che abbiamo davanti non è abbastanza da costituire un passo in avanti per la popolazione del pianeta. Non porta sufficienti sforzi aggiuntivi da parte degli inquinatori maggiori sul fronte delle loro emissioni».
Risultato storico
E alla fine, a riempire il bicchiere, resta l’approvazione del fondo per il “Loss and damage”, vale a dire i ristori per i danni della catastrofe climatica che si abbatte innanzitutto sui paesi più poveri e più esposti ai fenomeni meteorologici estremi. Un risultato per certi aspetti storico, verso il quale si è mosso in forma compatta il gruppo G77+ Cina che raccoglie i paesi più poveri: «Il loss and damage non è carità, ma un investimento nel nostro futuro condiviso, un acconto sulla giustizia climatica» ha commentato durante la seduta conclusiva Sherry Rehman, ministra del clima del Pakistan, fra i paesi più vessati dagli effetti del riscaldamento globale.
E l’appuntamento è per il prossimo anno, alla Cop28, quando un Comitato transitorio dovrà presentare un progetto per rendere finalmente operativo questo fondo di cui si parla da almeno trent’anni, stabilendo chi e quanto dovrà pagare, chi dovrà ricevere.
Sperando che nel frattempo il riscaldamento globale non presenti un conto troppo salato, specialmente sulle spalle dei più deboli.