Un manifesto politico, un tributo alla Terra, una condanna senz’appello dell’Occidente. Dopo Orestes in Mosul nella città martoriata dalla guerra e Il nuovo Vangelo ambientato a Matera con e tra i lavoratori schiavi del nostro Sud, alla terza tappa della Trilogia degli Antichi Miti, Milo Rau, acclamatissimo autore e regista svizzero da pochi mesi direttore artistico del Wiener Festwochen dopo la brillante esperienza al NTGent, è sbarcato in Amazzonia. Qui, nel polmone del mondo sfigurato dagli incendi, depredato dalla bramosia capitalistica e oltraggiato dai compromessi della produzione “sostenibile”, è nato Antigone in Amazzonia, appena presentato al Teatro Argentina di Roma nell’ambito del Roma Europa Festival.
I subdoli pericoli del capitalismo “green”
Protagonisti sono i lavoratori del Movimento dos Trablhadores Rurais Sem Terra della regione di Parà, in Brasile, che insieme ad altri gruppi “campesini” da oltre cinquant’anni da anni è in lotta contro l’esproprio delle terre e l’azzeramento delle culture indigene, della bellezza e della ricchezza dei saperi ancestrali perpetrati dal governo e dalla multinazionali in nome di un business che, negli ultimi decenni, si è ammantato di sostenibilità. Ha spiegato Rau in una lunga intervista:
«La deforestazione ha subito un’accelerazione da quando il capitalismo ha dato il via alla produzione ‘verde’ perché la soia e il biodiesel sono stati introdotti nel ciclo globale delle merci come materie prime ‘sostenibili’».
«Nello stato in cui abbiamo prodotto Antigone ci sono piantagioni di palme che riforniscono produttori europei come Ferrero o Unilever. I loro siti sono pieni di articoli sulla produzione equa e sulla riforestazione, ma i nostri gelati e i nostri ovetti hanno il sapore del sangue dei piccoli agricoltori sfollati e l’odore degli incendi dell’Amazzonia devastata».
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I Lavoratori senza Terra
Sono stati proprio loro, i Lavoratori senza Terra, ad avvicinare Rau e la sua compagnia, a Sao Paolo, nel 2019, all’indomani dell’unica replica dello spettacolo del regista contro l’omofobia immediatamente censurato dalla destra di Bolsonaro. Gli hanno raccontato di loro e della loro battaglia contro il greenwashing, a partire, proprio come l’Antigone di Sofocle, dal massacro che il 17 aprile 1996 lungo la Trans-Amazzonica ha ucciso 19 contadini e ferito 70 manifestanti. Kay Sara, leader del movimento, ha subito accolto l’idea dell’Antigone: «Non la conoscevo», ha raccontato durante il lungo periodo di gestazione, bloccato anche dal Covid. «Ma credo che il suo ruolo mi si addica perfettamente».
Uno spettacolo (apparentemente) semplice
Dopo Avignone e Vienna, ecco anche a Roma le bandiere rosse nell’atrio del teatro e un palco nero e nudo, cosparso di terra, nella scena di Anton Lukas dove inter-agiscono gli attori realmente presenti, i due fedeli interpreti della compagnia di Rau, Sara De Bosschere e Arne De Tremerie, e i brasiliani Frederico Araujo e Pablo Casella, quest’ultimo anche autore delle dolenti e possenti musiche che accompagnano dal vivo lo spettacolo. È uno spettacolo semplice nella sua immediatezza visiva, nel rispetto per la struttura sofoclea, inclusi il coro e l’unità aristotelica di tempo e, in fondo, nella traslazione sociale e politica: come Antigone a Tebe si oppose alle leggi tiranniche e inumane del re Creonte che negò la sepoltura al fratello morto Polinice, considerato un nemico della stato; così oggi Kay Sara lotta contro lo sfruttamento delle risorse naturali e l’annichilimento delle popolazioni residenti ordinati dalle leggi del mercato mondiale e protetti dalle politiche autoritarie del Brasile.
Antigone in Amazzonia sfida il potere
Allora come oggi, una giovane donna sfida da sola il potere costituito, al prezzo della propria vita, nel nome di qualcosa di più alto e radicale: non la legge degli uomini, ma un progetto altro di coesistenza tra vivi e morti, vincitori e vinti, nomos e natura. Quasi obbligato, dunque, per un regista come Rau che del teatro ha fatto il suo strumento di denuncia e di intervento (a Mosul ha fondato con l’Unesco una scuola di cinema per i giovani, nel Sud Italia è nata una rete di distribuzione di pomodori solidali distribuiti in 200 supermercati in tutta Europa) pensare all’Amazzonia e alle sue ferite, al grido inascoltato dei popoli nativi che vedono scomparire la terra e la memoria, l’identità e il futuro.
Guarda il video di Antigone in Amazzonia
Una presenza assenza
Ma è anche uno spettacolo complesso nei corto circuiti drammaturgici e politico-economici, a cominciare dall’assenza, a Roma come nella tournée, di Kay Sara che ha deciso di rimanere nella sua terra a proteggere il suo popolo, sottraendosi con un gesto profondamente eroico al narcisismo della spettacolarità. Kay è presente solo in video, nei re-enactment cari a Rau che qui si sdoppiano tra gli attori sul palco e gli schermi che salgono e scendono nella scena nera. Kay-Antigone ci porta con le immagini filmate nel suo villaggio e poi sotto il viadotto dove seppellisce Polinice, vestita di rosso, lacerata da un lamento straziante che è il lamento della Terra tutta, fino al gesto rivoluzionario che scaccia la cinepresa: «Stop filming!». Kay-Antigone è in scena Frederico Araujo, impegnato in una moltiplicazione di ruoli e di senso che sostiene con veemenza e bravura.
Questa follia deve finire
Kay-Antigone è il discorso che ha pronunciato all’apertura della School of Resistence, appuntamento quindicinale con artisti, filosofi, attivisti perché «Questa follia deve finire». Accanto lei compaiono anche la cineasta indigena Célia Maracajà, cui è affidata la rassegnazione dignitosa e disperata di Euridice e il leader indigeno e famoso ambientalista Ailton Krenak nei panni vanamente profetici di Tiresia. Perché nessun vaticinio è più possibile, siamo sull’orlo dell’apocalisse ecologica innescata proprio dalla scissione partita nell’antica Grecia tra genere umano e natura che ha portato alla morte degli dèi e alla civiltà della tecnica.
Un sesto atto di pura rivoluzione
Antigone in Amazzonia ci lascia però con una speranza. Se non è più dato all’uomo bianco rifondare il suo ordine simbolico, uno sguardo “altro” può aiutarci a rileggere la storia attraverso le Storie di chi, finora, non ha potuto raccontare i suoi miti.
«Sono stati loro a chiedermi: ma perché tutti si uccidono? La lotta continua, no? Così abbiamo riscritto il finale», ha spiegato il regista.
Dunque, dopo la morte di Tebe e dell’ingiustizia, Rau ha girato un sesto atto che Sofocle non poteva immaginare: un 17 aprile utopistico in cui i manifestanti uccisi si rialzano e la polizia stringe loro la mano. Perché questa follia deve finire.