Il festival Black History Month di Torino ha regalato al proprio pubblico la visione di “The Great Green Wall”, un docufilm uscito nel 2019 a firma di Jared P. Scott, regista statunitense particolarmente attento alle tematiche sociali e ambientali (ricordiamo almeno il suo durissimo The age of conseguence che poneva nel 2016 il tema del rapporto fra sconvolgimento climatico e instabilità globale). Ma alla base di questa pellicola, che racconta in novanta minuti l’utopia (speriamo destinata a compiersi) d’impiantare una lunga fascia arborea contro la desertificazione nel Sahel, c’è un’altra garanzia: quella del produttore e regista brasiliano Fernando Meirelles che nel cinema contemporaneo ha lasciato più di un segno (è da antologia il suo City of God, ormai ultraventennale) attraverso una narrazione spietata e indipendente che peraltro l’aveva già portato al cospetto del dramma sociale africano con The Constant Gardener (2005).
Coraggio d’artista
A brillare però in questo viaggio nel ground zero dell’Africa contemporanea, dove alla sofferenza si mescolano i talenti e negli occhi dei bambini si legge una dolcezza senza confini, è Inna Modja: la coraggiosa, sensibile e artisticamente superlativa pop-star che si mette sulle tracce di altri musicisti dislocati lungo questa imponente infrastruttura verde che, secondo le intenzioni, dovrà congiungere le due sponde del continente, dal Senegal all’Etiopia. E l’obiettivo della vocalist sarà proprio quello di comporre un album collettivo a sostegno di questo progetto di rigenerazione sociale, ambientale e sostanzialmente agricola promosso nel 2009 dall’Unione africana che al momento in cui fu prodotto il film risultava realizzato per appena il 15% (ora siamo all’incirca al 21%).
Racconto eccentrico
Così, una tappa dopo l’altra, durante questa esplorazione di paesaggi e comunità, incontreremo i custodi del mosaico verde che sta prendendo forma. Ci commuoveremo insieme ad Inna vedendo nascere l’ennesimo figlio di una terra che vuole amare e procreare, nonostante la popolazione cresca in maniera incontrollata e per certi aspetti irresponsabile. Osserveremo, attraverso i suoi occhi profondi, i crocevia del mercato di esseri umani, toccheremo con mano la violenza che perpetra Boko Haram attingendo alla disperazione di tanti giovani senza futuro, se non quello dell’emigrazione forzata da una terra che il riscaldamento globale rende ancora più ingenerosa.
Ma percepiremo, in una mescola di grande finezza registica, anche la speranza, l’energia, la straordinaria bellezza di un’Africa fuori dagli schemi, le vibrazioni della sua giovane anima nei brani degli artisti che Inna va a trovare. Tutti caratterizzati da un forte impegno civile, da biografie personali di profondo riscatto: come il rapper senegalese Didier Awadi, il collettivo dei Songhoy Blues in Mali, la voce superlativa, con un timbro quasi gospel, della nigeriana Waje e il sound fusion della cantautrice etiope Betty G.
Sguardo ravvicinato
Ci colpisce la sensibilità degli operatori di camera, che entrano con la discrezione degna di una documentazione antropologica nel vivo delle scene, anche quelle più intense, poi la fotografia del campo largo che ci allontana dall’uomo e ci restituisce il respiro della natura. Fino all’epilogo di questa narrazione acustica e visiva con una danza di comunità nelle verdi valli etiopi del Tigrè dove l’esperimento della riforestazione ha dato i suoi frutti.
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Le ragioni del cambiamento
Spetta al “Black History Month” di Torino, splendidamente diretto dalla mediatrice culturale d’origine somala Suad Omar, il merito di aver riproposto questa pellicola, nel Cinema Massimo, durante questi trenta giorni dedicati alla cultura africana, che proseguiranno (come in altre città del mondo, in Italia anche a Firenze e Bologna), fino all’1 marzo. Colmando un vuoto che il mainstream dell’informazione si ostina a scavare intorno alle tematiche più cruciali della nostra epoca, quelle che ci impongono di riparare la casa comune per generare delle condizioni più eque di convivenza. E risvegliando il nostro desiderio di partecipare alla conversione ecologica, per le mille ragioni che la rendono necessaria, a partire da quella di combattere l’ingiustizia climatica che pesa sui più poveri del pianeta.