E meno male che Silvio c’è. Nel senso – non fraintendiamo! – di Silvio Orlando, indiscusso mattatore di “Ciarlatani” che è in scena in questi giorni all’Argentina di Roma dopo il debutto estivo al Festival di Spoleto e prima della tournée in molte città italiane (Napoli, Massa, Pietrasanta, il Friuli). Mattatore come può esserlo un artista che ha fatto dell’understatement, della rimessa e dell’ironia ora distaccata ora dolente la sua cifra attoriale, del disincanto malinconico una scelta stilistica inconfondibile. Ennesima conferma, il ritorno sugli schermi in questi giorni con “Un altro ferragosto” di Paolo Virzì in cui dopo quasi trent’anni torna nella Ventotene di “Ferie d’agosto”, negli stessi panni del suo personaggio di allora.
Orlando a teatro, ironicamente sottotono, poliedricamente impegnato in diversi ruoli tra i venti previsti dalla commedia – vero tour de force per i soli quattro interpreti – non solo si moltiplica in alcuni dei personaggi, ma coproduce anche a nome della sua Cardellino e, da perfetto padrone di casa, accoglie bonariamente il pubblico, a sipario ancora chiuso, giusto per ricordare alla sala piena che al primo trillo di cellulare la compagnia si vedrà costretta a ricominciare lo spettacolo dall’inizio.
Interpreti e messaggi
Meno male che Silvio c’è non tanto perché gli altri attori non se la cavino egregiamente, anzi: Francesco Brandi, Blu Yoshimi e Francesca Botti entrano ed escono dai loro “personaggi” con padronanza, professionalità e adesione, creando un ritmo dichiaratamente vorticoso e regalando a ciascuna figura quasi un eccesso di corpo e di voce.
Mentre è invece proprio il sottotono di Orlando ad ancorare la commedia al suo messaggio di fondo: siamo tutti ciarlatani che recitano una parte, nessuno si salva dal desiderio di ”essere sempre la migliore versione di sé stessi”.
Ma anche: ben pochi riescono ad accettare il proprio fallimento, seguire la propria vocazione, rifiutare il compromesso, riconoscere il valore altrui, non depredare chi non sa o non può difendersi. Soprattutto nel rutilante mondo dello spettacolo, che sia cinema, tv o teatro, ovvero della non realtà. E’ la vita adulta, bellezza, quella che segna la fine dell’infanzia e a cui ci rimanda la scena iniziale della giovane attrice che da bambina, in un giorno di eclissi, diede addio alla sua infanzia per entrare nel mondo dei grandi, della finzione, dello spettacolo del mondo.
Personaggi e gioco di specchi
Ciarlatani parla di cinema e teatro, di attori e registi, di creatività e povertà di talento, di desideri e costrizioni. Sostanza e apparenza. E lo fa chiamando in causa Pirandello e Brecht, La vita è sogno e Sarah Kane, i sei personaggi e la moltiplicazione straniata, con cambi di scena a vista e una continua passerella di caratteri che ambiscono alla promozione a personaggi. C’è Eusebio Velasco, famoso regista di cinema degli anni Ottanta ora isolato dal mondo; c’è Anna, sua figlia, attrice in cerca d’autore che sogna il David, aspira a Cechov e alla Kane e tira avanti facendo la strega malvagia dell’Ovest alle feste per bambini; c’è Diego Fontana, regista di film commerciali alla vigilia di una serie tv interpretata dalla star più ambita; c’è il suo produttore, cocainomane e survoltato quanto basta. Sopravvissuto ad un incidente aereo, Diego ripensa alla sua carriera e decide di rinunciare alla televisione per girare il film mai realizzato da Velasco, “Parusia”, la seconda venuta, la rivelazione. Intorno a loro, appaiono e scompaiono giornalisti e attrici, una parodia dell’autore-regista e studentesse in un gioco di specchi che si rifrangono e si rimandano.
La regia
Pablo Remón, quarantasettenne drammaturgo e cineasta madrileno, gioca con il tempo e lo spazio, i linguaggi e le arti nel proporre un lavoro tanto drammaturgicamente complesso quanto velleitario che la sua regia quasi ingenua quando non meccanica indebolisce ulteriormente. Meno male, dunque, che Silvio Orlando c’è, dando corpo e voce ora a Eusebio Velasco e ora a Diego Fontana, ora al perfido cameo del bambino Filippo e infine, nell’agrodolce finale, all’improbabile, divertente e quasi affettuoso barista kazako dalle letture inutilmente colte (ha chiamato il suo cane come il filosofo coreano Byung Chul Han, quello che ci invita a leggere il capitalismo come un’ulteriore evoluzione dello sfruttamento in cui ognuno di noi è il proprio padrone e il proprio servo) che rassicura la giovane Anna per permetterle di accettare sé stessa.
Ma non bastano un eccellente attore e un trio di entusiasti interpreti a realizzare uno spettacolo riuscito. Non bastano il montaggio serrato, la sovrabbondanza dei piani di scrittura o la sarabanda dei caratteri. Il teatro ha le sue leggi e Remón ha pensato di poterle piegare ad altri linguaggi senza passare dal via. Se fossimo a Monopoli, andrebbe dritto dritto in prigione.