Natale con i tuoi e Pasquetta… pure. Quest’anno è così. E oggi, passato lo smarrimento incredulo, superata la reattività coatta, siamo alla fase tre: trasformare questo tempo “perso” in tempo “guadagnato”. Ma lo sentite come stonano queste parole? Come appartengono ad un “prima”? Un prima lontano solo quattro o cinque settimane che sembrano ormai di un’altra era. Perché anche se non sappiamo come sarà “dopo”, in questo “non-tempo” noi – noi tutti, ogni individuo e l’umanità intera – siamo come il seme dentro la terra. Le foglie non ci sono ancora, ma là sotto è successo l’incredibile. Anche noi, come il seme, siamo chiamati a trasformarci.
Mentre agli adulti fanno una gran fatica, cambiare è il gesto naturale dei bambini: non li vedi per una settimana e sono diversi, uno è un po’ più alto, uno ha una luce nuova negli occhi, un altro ha imparato una cosa difficile. Stavolta tocca a noi.
Lo dice così bene Chandra Livia Candiani:
«Le guerre, le inondazioni, i terremoti, le epidemie sono sempre altrove, ma non questa volta. Questa volta la nostra vita è cambiata in pochi giorni, la fugacità, la non solidità di tutto è evidente, ci riguarda. Il mito del controllo è ormai una statua andata in pezzi. La malattia e la morte sono qui, vicinissime. Che poi “cambiare” non significa nulla, se non trasformare quello che già c’è, conoscere il male perché nella sua nuova luce diventi la scelta di non compierlo e di girarsi verso un’altra prospettiva».
Per cambiare dentro abbiamo bisogno di fermare il fuori. Ora che il mondo intero si è fermato, ora che siamo entrati nella settimana della Pasqua, Pesach, passaggio, possiamo essere veramente crisalidi in tempo di crisi.
Crisi è una bellissima parola: viene dal greco “κρίσις” ed era il momento finale della trebbiatura, ovvero quando si separavano i chicchi del grano mietuto dalla paglia e dalla pula. Ciò che serve da ciò che è inutile. Ne abbiamo parlato a proposito del buttare come gesto di discernimento e di scelta, attività molto salutare anche per i bambini e per i ragazzi.
Mentre noi le rifuggiamo, il bambino cresce solo grazie alle crisi. A due-tre anni c’è la fase oppositiva, i “terrible twos” come la chiamano gli inglesi, per trovare conferma che esiste. A cinque il periodo delle fantasticherie e dei segreti, a nove un soprassalto emotivo. A dodici una trasformazione delle capacità di pensiero, poco prima del cataclisma dell’adolescenza.
Due parole in più sul nono anno, un passaggio importante, ancora poco conosciuto dalla pedagogia evolutiva: se intorno a quest’età i vostri bambini sono malinconici e pieni di paure, convinti che li abbiate adottati e improvvisamente ipercritici, è perché non si sentono più totalmente immersi nell’ambiente intorno a loro, bensì scoprono, forse per la prima volta, di essere interiormente unici ma anche, irrimediabilmente, soli.
Guarda l’intervista di Italian Reloaded a Chandra Livia Candiani (2015)
Come possiamo accompagnare le loro crisi, le nostre crisi? Con il calore, per cominciare. Il calore è uno strumento potentissimo dell’educare. Vive quando prendiamo in custodia l’altro, nella capacità di una relazione vera. Ma anche nell’atto fisico dell’accendere un fuoco o cucinare insieme e qui noi italiani possiamo attingere a tesori inestimabili.
Un’infanzia permeata di calore genera nel bambino interesse per l’altro e per il mondo, dalla lezione di geometria alla solidarietà.
Apre le porte ad un’attitudine alla cura come paradigmatica alternativa alla visione bellica sempre più pervasiva. Lo ha sottolineato anche Guido Dotti, monaco della comunità di Bose parlando dell’abuso di metafore guerresche che accompagnano il Covid-19 in tutti i suoi aspetti (medico, scientifico, economico, socio-politico…).
Il calore presuppone la cura, che è come un foglio, ha sempre due facce: se ci prendiamo cura di noi, ci prendiamo cura anche degli altri e viceversa. Tante testimonianze di medici e infermieri lo confermano, quando li sentiamo commossi ringraziare i “loro” malati. I primi a beneficiarne saranno proprio i nostri bambini e i nostri ragazzi, chiusi in casa ormai da settimane, privati della scuola e degli amici, del parco giochi e delle palestre, delle visite ai nonni e di ogni altro divertimento che non sia video-compatibile. Cominciamo adesso. Prendiamoci cura delle piante sul terrazzo, di come apparecchiamo la tavola, del tono della voce, del vicino che è solo, dell’amica che non sentiamo da mesi, dei pensieri che ci agitano e saranno loro, i bambini e i ragazzi di oggi, a fare domani meglio di noi.
Anche se non vanno più a lezione, potranno imparare che:
«L’umanità è oggetto di cure continue, fin dalle origini […]. La cura, il prendersi cura, è precisamente la cultura di cui parlano gli antropologi; e la cultura è in prima istanza “cura dell’umanità”; è un “fare” umanità prendendosi cura di essa; è un fare esseri umani provando, ricercando e accudendo la loro umanità». (Francesco Remotti, “Prima lezione di antropologia”, Laterza, 2000)