«Il messaggio che stiamo ricevendo è che se non ci prendiamo cura della natura, la natura si prenderà cura di noi. Sarebbe il caso di vietare i mercati di animali vivi». Mercati di animali vivi, appunto. Meglio noti come Wet market, dove “wet” sta per bagnato, bagnato di sangue. Come il mercato di Wuhan dal quale si è diffuso, secondo molte ipotesi, il virus che adesso tiene in scacco il mondo.
A schierarsi contro questa pratica dalle pagine del Guardian è stata Elizabeth Maruma Mrema, avvocato ambientale, membro della Iucn e Responsabile ad interim per la biodiversità dell’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite. Ma la sua voce rafforza un fronte già ampio che chiede di mettere al bando questi luoghi di commercio diffusi in diverse zone dell’Asia e dell’Africa, dove la macellazione sul posto sopperisce alla mancanza di strutture per la refrigerazione esponendo però le specie, selvatiche e domestiche, a maltrattamenti in condizioni igieniche assai critiche, pericolose anche per l’uomo.
Per questo l’organizzazione internazionale Animal equality ha lanciato pochi giorni fa una campagna on-line che chiede all’Onu di chiudere i wet market in tutto il mondo e che al momento di scrivere ha già raccolto quasi 185mila firme. In più il Wwf international ha appena diffuso i risultati di un sondaggio realizzato a marzo da GlobeScan tra i frequentatori di mercati in Giappone, Myanmar, Hong Kong, Thailandia e Vietnam (dunque non in Cina) secondo cui «l’82% degli intervistati è estremamente o molto preoccupato per l’epidemia» mentre «il 93% degli intervistati nel sud-est asiatico e ad Hong Kong sostiene le azioni dei loro governi per eliminare i mercati illegali e non regolamentati».
La Cina, dopo l’esplosione dell’epidemia ha vietato temporaneamente i mercati di specie selvatiche come zibetti, cuccioli di lupo e pangolini tenuti all’interno di gabbie strettissime e macellati su richiesta. In molti chiedono a Pechino di rendere permanente questa misura. Il problema però è anche di natura antropologica:
«Sarebbe bello vietare i mercati degli animali vivi come ha fatto la Cina e alcuni paesi – ha ricordato la stessa Elizabeth Maruma Mrema al Guardian – Ma dovremmo anche ricordare che ci sono comunità, nelle zone rurali a basso reddito, in particolare in Africa, che dipendono dagli animali selvatici e che danno sostentamento a milioni di persone. Quindi, a meno che non troviamo alternative per queste comunità, si rischia di aprire il commercio illegale di animali selvatici che sta già portando sull’orlo dell’estinzione molte specie».