Si chiama “Per grazia ricevuta” il documentario girato da Raoul Garzia e montato da Lucilla Castellano non solo per ricordare il noto film di Nino Manfredi del 1971, ma perché uscire dall’ospedale psichiatrico, come quello di Santa Maria della Pietà di Roma, ha significato per molte persone ritrovare la vita. Attraverso le parole dell’infermiere Adriano Pallotta, degli psichiatri Massimo Marà e Tommaso Poliseno ed ex pazienti, il regista di “W l’Italia diretta”, “Robinù” e “Kimemia” ricostruisce i drammi vissuti in un luogo di annientamento della persona, chiuso soltanto nel 1999, 21 anni dopo la Legge 180.
Come è nata l’idea di realizzare un documentario sul manicomio di Santa Maria della Pietà di Roma?
Una giornalista di “Metro” mi contattò per fare delle riprese. Aveva in mente un reportage con un video di 5 minuti. Ma non è stato realizzato. In quella circostanza però ho conosciuto Adriano Pallotta, che mi ha fatto scoprire come si viveva all’interno dell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà. Ho conosciuto poi ex degenti. Fino a quel momento non avevo mai approfondito il tema dei manicomi. Avevo visto ex internati girare nel mio quartiere, nell’area nord di Roma, a pochi passi dalla struttura. Sapevo soltanto che nel corso degli anni, in seguito alle parole di Basaglia, nelle mura di Santa Maria della Pietà si erano verificate azioni di disobbedienza ed erano stati aperti gli spazi.
Come è avvenuta la ricerca del materiale?
Il lavoro di ricerca è nato insieme alle interviste. Grazia alle testimonianze di Pallota e di alcuni psichiatri ho conosciuto cosa si nascondeva in quel manicomio. E questo mi ha spinto a leggere ciò che aveva scritto Basaglia, e in particolare la sua idea di comunità terapeutica. Ho poi trascorso alcuni giorni insieme agli ex degenti.
Nel documentario il manicomio si presenta come un vero e proprio centro di detenzione. Alcuni bambini sono stati rinchiusi semplicemente perché venivano considerati timidi…
Sì, era così. Gli orfani poveri venivano affidati alle suore, le quali spesso non avevano le competenze per affrontare alcuni disagi. L’alternativa restava quella di affidarli ad ospedali psichiatrici, dove venivano reclusi insieme a persone con diversi problemi psichici. Ad accoglierli c’erano spesso infermieri non preparati, a cui gli psichiatri assegnavano il compito di trattare il “malato mentale” con i metodi conosciuti e diffusi allora. Alberto (ndr. ex degente dell’ospedale psichiatrico e testimone presente nel documentario), ad esempio, a 12 anni anni è stato sottoposto all’elettroshock. In altri casi, l’infermiere, che rappresenta ancora oggi lo zoccolo duro degli ospedali, ricorreva a “cure” come la malarioterapia.
Le immagini del lavoro aiutano a comprendere bene il pensiero di Basaglia. In particolare la violenza nelle relazioni. Una questione ancora attuale?
All’inizio del documentario Adriano Pallotta dice: «Il manicomio non va distrutto, il manicomio va smontato pezzo per pezzo per poter capire quali sono stati i difetti che lo hanno prodotto e non ripetere l’errore». Potremmo sintetizzare tutti i nostri discorsi con queste parole. Perché lo vediamo anche oggi cosa significa perdere la libertà e le relazioni sociali. Le persone lavorano e si chiudono nelle loro case. Questa dinamica è più evidente con il lockdown, e presto dovremo preoccuparci degli effetti della chiusura sulla nostra psiche e soprattutto su quella dei bambini. Fortunatamente oggi esistono delle strutture e delle nuove terapie legate all’arte che ci consentono di esprimere meglio il disagio. Senza ricorrere necessariamente agli psicofarmaci. Ma prima della legge Basaglia non era possibile adottare queste pratiche.
In un editoriale che sarà pubblicato su #WorldPsichiatry, anticipato all’ANSA, il direttore gen. dell’#Oms Ghebreyesus spiega che l’emergenza #Covid sta provocando la crescita di segnalazioni di ansia, paura, disturbi del sonno e depressione. #ANSASalutehttps://t.co/MyoPTrA9Fg
— ANSA Salute & Benessere (@ANSA_Salute) May 7, 2020
Qual è stata la vera rivoluzione di Basaglia?
Franco Basaglia aveva capito, come dice lo psichiatra Massimo Marà, che la malattia non coincide con il malato. Le persone affette da un disagio psichico vanno guardate innanzitutto nel loro intimo. E bisogna avere il coraggio di instaurare un rapporto con loro, lasciandoli liberi. Non dobbiamo dare per scontato questi aspetti. Basaglia ci ha detto che i disagi incominciano dalla società. E allora dovremmo riscoprire il senso della comunità. Non si affrontano, infatti, alcuni problemi con le ricchezze materiali. In Africa, dove ho vissuto per alcuni mesi, ho visto che nonostante la povertà i bambini sono liberi di esprimersi e di relazionarsi. È una ricchezza almeno per la loro mente.
Cosa possiamo fare ancora?
Va comunque ricordato che la Legge 180 prevedeva maggiori investimenti nelle strutture terapeutiche. E un numero maggiore di personale sanitario qualificato. Esistono delle realtà che funzionano bene, ma non basta. Purtroppo una carenza di strutture induce le persone affetta da disagi psichici a trovare la soluzioni negli psicofarmaci oppure nella droga e nell’alcol.