Per studiare gli animali i naturalisti ante litteram prendevano la carabina, sparavano, poi osservavano il soggetto, lo disegnavano su una tavola, lo dissezionavano. La caccia è stata allo stesso tempo l’attività più diffusa di chi “si interessava” alla natura e puntava spesso al trofeo, all’animale impagliato da esibire in un museo o sopra il camino. Sembra un racconto del millennio scorso, ma chi era bambino negli anni Ottanta come me, ricorda quanti animali impagliati comparivano nelle case di campagna che si visitavano e, spesso, almeno chi aveva un certo tipo di sensibilità, vedeva questo con un certo ribrezzo. L’evoluzione culturale ha fatto sì che i cacciatori diminuissero sempre più in un trend costante, ed emergesse la “caccia fotografica”, brutto termine perché fa riferimento ancora all’attività venatoria, seppure incruenta.
Fotografare, preservare
Oggi si fa largo sempre più la conservation photography, un’area della fotografia naturalistica che si sviluppa a seguito dell’evoluzione che questa attività ha subito negli ultimi anni grazie alle nuove priorità imposte dalla crescente consapevolezza delle minacce all’ambiente naturale. In fondo se chiedessero a molti giornalisti ambientali, perché hanno scelto di scrivere di protezione della natura, risponderebbero che lo fanno perché hanno a cuore questo pianeta; ecco questo è conservation journalism.
Il valore etico dell’immagine
La conservation photography parte dalla convinzione che la fotografia possa dare un contributo significativo alla scienza, alla ricerca, alla documentazione dell’ambiente naturale, all’educazione e alla consapevolezza ambientale. «Possiamo dire che questo genere di fotografia implica, tuttavia, un cambiamento ancora maggiore, il focus del fotografo non è più solo l’estetica dell’immagine, ciò che conta ora è il significato dell’immagine, il suo valore etico, il contributo che può dare alla conservazione della specie o ambiente», spiega Roberto Isotti, fotografo dell’agenzia Homo Ambiens, che da anni collabora con associazioni come Wwf e Greenpeace.
Bellezza e fragilità
E la bellezza allora che ruolo ha in questa filosofia? «Sicuramente conserva la sua importanza, anche per la sua capacità di catturare l’attenzione, toccando le emozioni dell’osservatore, ma il “nuovo” fotografo naturalista deve essere in grado di cogliere anche gli aspetti critici e il fragilità dell’ambiente, per fare questo deve studiare in profondità il suo argomento fotografico, lavorando a stretto contatto ricercatori, organizzazioni e associazioni che lavorano sul campo», spiega Isotti.
La fotografia di conservazione comporta anche una responsabilità nei metodi e nelle tecniche di lavoro adottati. Uno dei doveri etici è quello di tenere presente i modi che il debito che si deve alle proprie fonti può essere rimborsato, in qualche modo. Si può scegliere, come molti fanno, di appropriarsi delle immagini senza prendere in considerazione il proprio soggetto, invadendo il territorio e disturbando i ritmi naturali. Oppure si può scegliere di essere sensibili, facendo in modo che la propria attività non sia troppo invasiva. O si può fare ancora di più.
Una ricerca scientifica attraverso gli scatti
Gli ingredienti della conservation photography sono: uno studio accurato dell’etologia della specie che stiamo documentando, non solo per aumentare le possibilità di sessioni fotografiche di successo, ma per evitare di causare danni; conoscenza intima del territorio; lavorare in collaborazione con la popolazione locale; contribuire alla ricerca scientifica, rendere disponibili immagini che forniscano informazioni utili allo studio e gestione della specie; e, infine, scegliere di rappresentare il soggetto in modo altamente evocativo, capace di trasmettere i valori e l’importanza dei sistemi naturali.
Guarda il video sulla Wildlife photography di Bruno D’Amicis
«Non è la fotografia che rende unica un’esperienza, ma il percorso che ha portato a realizzare quella foto», spiega Bruno D’Amicis, grande fotografo naturalista, che ha partecipato alla giuria del World Press Photo, dopo essere stato tra i vincitori, sdoganando il fatto che questo genere di fotografia non è di serie B.
«L’etica in fotografia significa non interferire con gli animali, non basta camuffarsi perché l’odorato rivela ai mammiferi la nostra presenza anche a trenta metri. Bisogna conoscere bene i posti e stare sempre sotto vento».