«Abbiamo visto il fuoco divampare su Moria. Tutto il campo era inghiottito dalle fiamme, c’era un esodo di persone in fuga senza alcuna direzione. Bambini spaventati e genitori sotto shock. Ora stiamo lavorando per dare loro assistenza». Le parole sono di Marco Sandrone, dell’organizzazione internazionale Medici Senza Frontiere. Un testimonianza diretta di quello che sta accadendo a Lesbo, nel campo profughi più grande d’Europa, dove sono costrette a vivere più di dodicimila persone, invece delle tremila previste. Non sono ancora chiare le cause dell’incendio. Dalle prime informazioni provenienti dai media locali sembrava che fosse in atto una protesta contro le restrizioni imposte dopo che un rifugiato somalo è risultato positivo al Covid-19. Un’ipotesi smentita dalle autorità greche.
Quello di ieri notte d’altro canto è l’ennesimo episodio che conferma le criticità nella gestione dei migranti sull’isola. Già lo scorso 16 marzo le fiamme, divampate per ragioni non dolose, avevano ucciso una bambina di 6 anni. E sempre lì, qualche giorno prima, il 2 marzo, era morto un bambino durante un tentativo di sbarco. A febbraio erano stati lanciati lacrimogeni sui migranti, minorenni compresi, che manifestavano contro una nuova legge che in Grecia avrebbero reso più difficile ottenere lo status di rifugiato. E per settimane, nella totale indifferenza delle istituzioni internazionali, si sono registrati episodi di aggressione da parte di gruppi isolati contro gli abitanti di Moria.
Ylva Johansson, commissario affari interni Ue, ha annunciato via Twitter di voler finanziare il trasferimento immediato e l’accoglienza di 400 minori non accompagnati.
Ma l’attivista per i diritti umani Nawal Soufi ha risposto: «Questa volta basta ipocrisia. Smettiamola di lavarci la coscienza ogni volta trasferendo un centinaio di minori non accompagnati per calmare le acque e poi si ricomincia come prima. Bisognerebbe usare i fondi per recintare Moria in modo intelligente. Evacuiamo le 13.000 persone che hanno perso tutto».