Ha chiuso con una perfezione giottesca, in sordina e alla grande, com’era nel suo stile. Gigi Proietti è morto stamattina all’alba, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, una data su cui aveva sempre scherzato: «ll 2 novembre… Che ce voi fa’?». È stato il cuore a tradirlo, come già in passato e negli ultimi mesi, quando, da casa, dava gli ultimi ritocchi al suo libro Ndo cojo cojo, il racconto “fuori da ogni regola” degli amici e della gente che ha incontrato. La gente che l’ha amato sempre e che ora lo saluta dai social con le citazioni di alcuni delle sue battute più famose, dalla “Mandrakata” di Febbre da cavallo al Cavaliere nero.
Gli esordi
Se ne va l’ultimo dei grandi mattatori del nostro spettacolo, attore di teatro e di cinema, regista, doppiatore, direttore, maestro e la sua scomparsa non può che amplificare il vuoto abissale, l’assordante silenzio dei teatri e dei cinema chiusi. Proietti li ha frequentati tutti, da quello parrocchiale dove si esibiva saltuariamente durante gli studi fin a quando il suo storico amico Lello, vedendolo recitare, gli disse di lasciar perdere giurisprudenza, al teatro universitario, dalle cantine romane e ai teatri Tenda degli anni Settanta, dal Brancaccio di cui divenne direttore nel 2001 fino al suo capolavoro, il Silvano Toti Globe Theatre, il teatro shakespeariano nel cuore di Villa Borghese, nato per sfida e per incondizionato amore della sua città.
Roma e la politica
Roma è il filo rosso della sua biografia. A Roma Proietti è nato e vissuto, ne ha incarnato la lingua, l’ironia, il menefreghismo e il cuore grande, la grande apertura e insieme la difficoltà a costruire legami, ponti. «Qualcosa in questa città si è rotto», aveva dichiarato pochi giorni fa in una lunga intervista-bilancio alla vigilia di 80 anni all’insegna dell’autonomia professionale e dell’infaticabilità. E se “il popolo” ha amato Proietti incondizionatamente, la politica lo ha sempre snobbato e maltrattato, esonerandolo dalla guida del Brancaccio senza preavviso e negandogli più volte la direzione del Teatro Argentina, il teatro pubblico della città: troppo di sinistra per gli amministratori di destra, troppo popolare per quelli di sinistra.
La lezione delle avanguardie storiche
E pensare che nella sua lunghissima carriera ci sono stati Jonesco e Gombrowitz, il teatro Dada e Genet, Vian e Brecht, a cominciare dalle esperienze al Teatro Centouno dove il giovane Gigi muove i suoi primi passi insieme ad Antonio Calenda, Piera degli Esposti, Ginny Gazzolo e una serie di interpreti che si interrogano sul proprio linguaggio scenico sull’onda delle grandi avanguardie storiche europee. Calenda è uno dei grandi sodalizi artistici di Proietti: li ricordiamo insieme al Teatro dell’Aquila, con Il dio Kurt di Moravia dove l’attore è un ufficiale delle SS in preda ad un ossessivo furore verbale interpretato magistralmente e premiato con il Saint Vincent.
Un “mattatore” che sa farsi amare
L’occasione che a teatro lo fa conoscere al grande pubblico arriva nel 1970, quando Garinei e Giovannini gli chiedono di sostituire Modugno nella loro commedia musicale Alleluja brava gente al Sistina accanto a Renato Rascel. Dal ruolo di Ademar, un travolgente voltagabbana dell’anno Mille che traffica in reliquie, gemma un inaspettato Gigi Proietti: balla, canta, recita, ammalia spettatori e critica e si attesta come uno dei più versatili attori italiani del momento. Molti lo paragonano a Gassman per la mattatorialità e la forza scenica, per la versatilità e il virtuosismo, ma Proietti riesce là dove Gassman non poté e riuscì Sordi: si fa amare. Il pubblico lo segue, lo acclama, lo elegge ottavo re di Roma ed erede di Petrolini, e anche fuori dalla sua città gli vengono unanimemente riconosciute la naturalezza espressiva, l’onestà intellettuale, la carica carismatica.
Guarda Gigi Proietti che imita Vittorio Gassman
La consacrazione del grande pubblico
Proietti scopre il pubblico e il pubblico incontra Proietti che seguendo la grande tradizione attoriale del Novecento attraversa a teatro tutti i generi, da Shakespeare al cabaret, da Apollinaire al musical, da Carmelo Bene alla fondamentale collaborazione con Roberto Lerici che dà vita al trionfo di A me gli occhi, please, varato nel 1976 e riportato in scena più e più volte fino al 2000, e ai suoi spettacoli più conosciuti e rinomati, Come mi piace e Leggero leggero, capolavori dell’one man show all’italiana.
A me la voce, please
E mentre suona e canta perché la musica è un altro dei suoi grandi talento e una smisurata passione, si avvicina al doppiaggio: dopo il Gatto Silvestro insieme a Loretta Goggi-Titti diventa la voce di Dustin Hoffman (Lenny, 1974), Kenneth Branagh (Hamlet, 1996), Donald Sutherland (Casanova, 1996) e Robert De Niro (Casinò, di Martin Scorsese, 1995, per cui vince uno dei molti Nastri d’Argento della sua carriera) fino al mitico «Adrianaaaaa» del primo Rocky (1976).
L’arte di insegnare
Sono anni intensi, quasi logoranti. Ma Proietti ha estro ed energie per fondare, nel 1978, anche il suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche che, in parallelo alla Bottega di Gassmann, forma la nuova generazione degli attori italiani: Flavio Insinna, Massimo Wertmüller, Rodolfo Laganà, Chiara Noschese, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Francesca Reggiani. «Insegnare non è facile – diceva – Solo alla fine, i ragazzi finivano per dirmi: avevi ragione tu».
Dal Maresciallo Rocca a Mangiafuoco, passando per Altman e Lumet
Insieme al teatro e al doppiaggio, arrivano anche il cinema recitato e la televisione. I grandi sceneggiati Rai della televisione che ancora portava il teatro nelle case degli italiani (Enriquez, Quartucci, Gregoretti), la conduzione di Fantastico, il giardiniere di Villa Arzilla e poi l’enorme successo del suo Maresciallo Rocca, dove interpreta l’indimenticabile carabiniere vedovo con quattro figli che colleziona premi, record d’ascolti e milioni di spettatori.
Al cinema, dopo gli esordi con Tinto Brass (L’urlo, 1968) e le esperienze internazionali sotto la regia di nomi come Lumet, Altman e Tavernier, arriva il ruolo che ne sancisce la dimensione “mitica”, quel Bruno Fioretti detto Mandrake nel film di Steno che ha nel 2002 ha avuto anche un sequel, Febbre da cavallo – La mandrakata diretto da Carlo Vanzina. Il suo ruolo più recente è stato il Mangiafuoco del Pinocchio di Matteo Garrone, ma lo rivedremo in una commedia che sarebbe dovuta uscire il 3 dicembre Io sono Babbo Natale di Edoardo Falcone con Marco Giallini ex galeotto che rubando rubando arriva in casa dell’anziano Gigi, povero in canna, ma custode di un grande segreto sull’identità di Babbo Natale.
Grazie, Cavaliere Nero
Ci saluterà così, sornione, sorridente, smagato. Fedele alla sua città e alla sua compagna, 58 anni di coppia senza mai volersi sposare, all’arte e alla rettitudine morale, «Senza rimpianti: rifarei tutto, anche quello che non è andato bene». Ciao Gigi. E grazie.