violenza contro le donne
Il 25 novembre ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne proclamata dall’Onu nel 1999

La violenza sottile e la forza gentile delle donne

In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, una riflessione sugli abusi meno visibili ma non meno pericolosi. Per contrastarli insieme, con consapevolezza e solidarietà
25 Novembre, 2020
6 minuti di lettura

 Il 25 novembre ricorre la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne proclamata dall’Onu nel 1999. Ogni anno, in tale ricorrenza, vengono diffuse agghiaccianti statistiche sui femminicidi e le violenze domestiche, che però costituiscono solo la punta dell’iceberg di un sistema assai più esteso e complesso di violazioni dei diritti umani delle donne.

 

violenza contro le donne
Le violenze domestiche costituiscono solo la punta dell’iceberg di un sistema più esteso e complesso di violazioni dei diritti umani delle donne

La violenza di genere, che cos’è?

Quando si pensa alla violenza di genere, infatti, sfilano nella mente immagini di donne con le facce tumefatte dalle botte o devastate dall’acido, mutilazioni, cruente scene di stupro.

Ma sappiamo bene che queste immagini spesso sono solo l’epilogo di storie fatte di violenze più sottili che poi evolvono, di colpo o attraverso una lenta escalation, in terribili delitti. In molti casi (molti di più) l’epilogo delittuoso non c’è ma la violenza sì, e permea un’intera vita.

Urla, botte, parolacce. Ma anche silenzio e manipolazione

La violenza psicologica, fra tutte, è la più nota, quella a cui si possono ricondurre molti comportamenti, da quelli fortemente insultanti come le parolacce, le urla, i ricatti affettivi, le minacce di omicidio o suicidio, fino a comportamenti apparentemente normali, in realtà fortemente disfunzionali come il “trattamento del silenzio” fatto di mutismi e musi lunghi, o come il gaslighting, con il quale si tende a confondere le idee alla vittima, facendola dubitare del suo stesso equilibrio mentale. 

Svalutare, deridere, distruggere

Arma principale della violenza psicologica sono però i comportamenti svalutanti: le critiche continue, le colpevolizzazioni, le frasi sarcastiche, le risatine di scherno con le quali si tende a bollare ogni azione della malcapitata.

È difficile cogliere la portata distruttiva di questo comportamento, perché avviene perlopiù fra le pareti domestiche. Un uomo che dà sempre torto alla moglie, anche se lo fa in pubblico, appare solo come un burbero. Ma sentirsi dire, tutti i giorni, che “non ne fai una giusta”, può azzerare l’autostima di chiunque.

Isolamento e ricatto economico

Aggiungiamo poi a questo la tendenza a isolare la vittima dagli amici e dalla famiglia, costringendola di fatto a frequentare solo persone scelte dall’uomo, e non ci sarà più nessuno a cui chiedere consiglio e aiuto. La violenza economica è un’altra forma micidiale di privazione dei diritti. Le donne nella stragrande maggioranza guadagnano meno, hanno lavori più precari e quindi dipendono economicamente dagli uomini, che si servono di questo come ricatto, tagliando i viveri ogni volta che vogliono indurre alla sottomissione.

La “violenza simbolica”: la visione degradante della donna

Ma esiste una violenza ancora più sottile,  nascosta nelle abitudini della vita quotidiana, quella che negli anni’90 Pierre Bourdieu definì come “violenza simbolica”, che consiste nell’imporre una visione del mondo sessista attraverso azioni difficilmente percettibili.

«È una violenza che cammina sotto traccia – afferma Francesca Marone, docente associata di Pedagogia delle relazioni familiari e direttrice del Laboratorio Dgf (Donne, genere e formazione) dell’Università di Napoli Federico II – salvo poi emergere quando percepiamo una nota stonata, come l’immagine di una donna seminuda sulla copertina di un settimanale di cultura politica».

 

Parole, parole, parole…

Questa violenza si esercita spesso attraverso le parole. Parole apparentemente innocue, come i nomignoli con cui il capufficio si rivolge alle impiegate: “bellezza”, “cocca”, “bambola”, mentre chiama per nome gli impiegati maschi. O le parole spocchiose del cosiddetto mansplaining, termine con il quale da qualche tempo si indica l’atteggiamento paternalista con cui molti uomini tendono ad indulgere in spiegazioni superflue indirizzate a donne che non ne hanno bisogno. O quelle del possesso e dell’isolamento: «Sei mia», «Nessuno mai ti amerà come me». 

Quando le donne minimizzano (si) fanno violenza

L’aspetto preoccupante di questa violenza è che spesso sono le stesse donne a riprodurla, per esempio con dei luoghi comuni che tendono a minimizzare la violenza, come la madre che consiglia alla figlia di sopportare il marito prepotente: «Ha un brutto carattere», «Bisogna prenderlo dal suo verso». O le terribili domande che si rivolgono a ogni donna molestata o stuprata: «Perché eri lì?», «Com’eri vestita?». Perfino il femminicidio diventa spesso una “tragedia dettata dalla gelosia” e gli stupratori “bravi ragazzi di buona famiglia”. 

 

Guarda il monologo di Paola Cortellesi scritto dal linguista Stefano Bartezzaghi

 

 

E gli uomini? Non sono tutti uguali

Ma le parole più tossiche hanno un’apparenza innocua: come la frase «Sono tutti uguali», una frase che usano le donne fra loro, e che invita a rassegnarsi perché la realtà è immutabile e non si troverà mai nulla di meglio. Dire a una donna che da anni subisce violenze, fisiche o psicologiche, che gli uomini sono tutti uguali equivale a risospingerla nell’abisso dal quale sta cercando di uscire. Ed è una mistificazione perché non è vero. Ci sono uomini che rispettano le donne, e ce ne sono tanti che, pur essendo cresciuti con una mentalità maschilista, si sono poi evoluti e hanno provato a cambiare.

Educare per cambiare. Anche le donne

Gli altri, quelli che non vogliono cambiare, hanno però buon gioco perché spesso le donne non hanno le idee chiare, perché sono isolate, perché hanno un’autostima fragile, e  questo isolamento e questa fragilità sono terreno fertile per la violenza. Cosa fare per cambiare le cose?

«L’educazione ha un ruolo fondamentale nella prevenzione – afferma la professoressa Marone – ma è una strada che richiede tempo e che, per essere efficace, deve essere permanente e capillare. Richiede un lavoro anche sulla formazione dei docenti, sulle relazioni con le famiglie e sull’intera comunità educante. Inoltre occorre agire sulla società, mettendo a sistema tutte le azioni che tutelano le donne, sul lavoro, in famiglia e nella scuola».

Comunicare bene per cambiare il male

La professoressa continua: «Assistere le donne vittime di violenza, garantire le pari opportunità sul lavoro, agire legalmente in modo rapido ed efficiente contro stupri e violenze domestiche, devono diventare pratiche quotidiane, e la formazione di coloro che devono occuparsene può aiutare in questo».

Anche il mondo della comunicazione può fare molto, diffondendo un’immagine della donna non sessista, ma soprattutto diffondendo le parole giuste, quelle che possono suscitare una presa di coscienza, aiutando le donne  a coltivare in sé una forza gentile e inflessibile.

La battaglia vinta di Maria Beatrice Giovanardi

Un esempio è la tenace battaglia di Maria Beatrice Giovanardi, manager italiana che da anni vive a Londra, interessata alla lingua e ai suoi risvolti sulla questione femminile, che ha costretto l’Oxford Dictionary a cambiare la definizione della parola “woman”.

 

Diritto. Una parola per rinascere

Una parola davvero magica è “diritto”. Quando appare nella vita di una donna c’è una piccola rivoluzione. Le donne scoprono che hanno diritto a ribellarsi a violenze e discriminazioni, che hanno diritto a rompere i legami insani, che se non ce la fanno da sole hanno diritto di chiedere aiuto. Scoprire di avere dei diritti non sempre risolve il problema: forse il capufficio continuerà a provarci o il matrimonio problematico non sarà sciolto. Ma la presa di coscienza dà la voglia di tentare e la speranza di farcela.

Gli anni Settanta e Ottanta: conquiste di civiltà

Le donne quando fanno questa scoperta fioriscono. Imparano a prendersi cura di sé malgrado tutto, studiano, talvolta di nascosto, tessono reti di solidarietà, fanno volontariato, crescono. Ed è a questo punto che la compagnia delle altre donne inizia ad avere un ruolo determinante. Negli anni Settanta e Ottanta, quando per fare rete c’erano solo il telefono e la posta, la solidarietà fra donne ha prodotto grandi conquiste come il diritto alla procreazione responsabile (Legge 405/1975 e Legge 194/78) e la riforma del diritto di famiglia (Legge 151/1975).

 

 Guarda il video sulla Legge 194 del 22 maggio 1978

Sorellanza. La parola che risana

Quante potenzialità ancora in fieri si possono scoprire negli attuali media, per la creazione di reti di donne in grado di costruire insieme una nuova cultura e una nuova visione del mondo? Internet, le piattaforme, i social media, se ben usati, offrono uno strumento potentissimo all’organizzazione della solidarietà femminile. C’è un’altra parola risanatrice, capace di cambiare la vita di una donna: Sorellanza. 

 

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