Il consiglio è di tuffarsi dapprima nelle sale del Maxxi di Roma per immergersi in quel paradiso verde che è la foresta amazzonica e poi di tornare sui propri passi per soffermarsi su ogni scatto e leggere le splendide didascalie che accompagnano e spiegano le altrettanto splendide fotografie del maestro brasiliano.
Ciò che resta del Paradiso
Un polmone che vede assottigliarsi – sempre di più e sempre più velocemente – la sua capacità di assorbire anidride carbonica e produrre ossigeno. Polmone che sempre meno soddisfa il fabbisogno delle tribù che lo abitano, sempre meno le protegge da inondazioni e carestie causate da deforestazione e bracconaggio.
Al Maxxi, avvolti dalla foresta
Nella prima parte, le fotografie sono organizzate per ambientazione paesaggistica. Le sezioni vanno dalla Panoramica della foresta, in cui si presenta al visitatore l’Amazzonia vista dall’alto, a I fiumi volanti, una delle caratteristiche più straordinarie e allo stesso tempo meno conosciute della foresta pluviale, ovvero la grande quantità d’acqua che si innalza verso l’atmosfera.
«Una foto in bianco e nero invece – ha scritto nel volume Dalla mia terra alla Terra (edizioni Contrasto) – è come un’illustrazione parziale della realtà. Chi la guarda, deve ricostruirla attraverso la propria memoria che è sempre a colori, assimilandola a poco a poco. C’è quindi un’interazione molto forte tra l’immagine e chi la guarda. La foto in bianco e nero può essere interiorizzata molto di più di una foto a colori, che è un prodotto praticamente finito».
Sette anni, 190 comunità, oltre 200 scatti
Sette anni di lavoro sul campo che gli hanno permesso di avvicinarsi, osservare e fotografare la vita di 12 delle circa 190 comunità presenti nella foresta.
Come gli Awá-Guajá, considerati la tribù più minacciata del pianeta (solo 450 membri), o gli Yawanawá, che, sul punto di sparire, hanno ripreso il controllo delle proprie terre e la diffusione della loro cultura, prosperando. Fino ai Korubo, fra le tribù con meno contatti esterni: proprio la spedizione di Salgado nel 2017 è stata la prima occasione in cui un team di documentaristi e giornalisti ha trascorso del tempo con loro. Nella mostra, inoltre, una serie di filmati presentano testimonianze di nativi sulla necessità di salvare la loro cultura e il loro ambiente.
Jean-Michel Jarre, un compagno di viaggio sonoro
«Per ogni spedizione abbiamo ottenuto l’autorizzazione dalla tribù: non si può entrare così nel cuore del territorio senza essere autorizzati. Dopo che viene spiegata ai membri la finalità del viaggio, è la stessa tribù che decide il periodo di visita – ha raccontato Salgado. Gli Indios sono molto curiosi e molto consapevoli di ciò che facciamo. Le comunità sono minacciate ma sono organizzate in associazioni di tutela».
Per il progetto Amazônia, Jarre ha collaborato attivamente con il team scientifico del Museo Etnografico di Ginevra (Meg) per ricreare il più fedelmente possibile l’identità sonora della foresta e delle persone che la abitano. Il Meg, infatti, conserva una raccolta di circa quaranta ore di archivi sonori dell’Amazzonia, di cui una trentina sono registrazioni originali realizzate in Brasile (Mato Grosso, Rondônia, Pará) e in Guyana tra il 1968 e il 1992.
La foresta come esperienza audio
«Volevo evitare l’approccio etnomusicologico o di creare della musica di sottofondo.» Dell’album di Jarre esiste una versione binaurale, che offre all’ascoltatore un’esperienza sonora particolarmente spettacolare e immersiva: mentre il suono stereo offre un suono direzionale dell’orecchio sinistro/destro, l’audio binaurale, ascoltato in cuffia, crea un’esperienza audio surround 3D, più simile alla percezione uditiva umana. Così Jean-Michel Jarre spiega questa scelta:
«Nella foresta c’è la cultura del nomadismo. Spostarsi da un luogo all’altro, dall’oscurità alla luce, da una dolce quiete a una minaccia latente, avanzare lasciandosi alle spalle la realtà per sprofondare nel potere dei riti e dei sogni. Ho costruito questa colonna sonora come fosse una cassetta degli attrezzi composta da diversi oggetti sonori. L’idea è quella di attraversare questi diversi elementi organici, naturali, etnici, orchestrali ed elettronici, che uno potrebbe incontrare solo vagando in una foresta… per poi lasciarsela alle spalle, come tracce temporanee di un tempo e di uno spazio che non hanno fine».
Prossima sfida: portare gli Indios alla Cop. Nonostante Bolsonaro
A spostarsi è anche la mostra che, inaugurata il 7 aprile alla Philharmonie de Paris, dopo Roma toccherà San Paolo, Rio de Janeiro e Londra: «Le immagini – ha scritto Sebastião Salgado – possono risvegliare le coscienze come una premessa necessaria all’avvio di qualche azione. Un’immagine è come un appello a fare qualcosa, non soltanto a sentirsi turbati o indignati. La foto dice: “Basta! Intervenite, agite!”».
Se Genesi, a Roma nel 2013, era un viaggio fotografico nei 5 continenti per raccontare il tesoro unico e prezioso che è il nostro pianeta e allo stesso tempo un grido di allarme affinché si ripensassero i modelli di consumo e di sviluppo, Sebastião Salgado. Amazônia testimonia ora la bellezza della più grande riserva naturale del mondo, immortalando i volti di chi protegge quel patrimonio continuamente a rischio.
Secondo gli esperti, una perdita del 20-25% della copertura forestale dell’Amazzonia potrebbe significare il «punto di svolta per lo stato di salute degli ecosistemi» coinvolti. Un messaggio ai “grandi” della Terra alla vigilia della Cop 26, 26esima Conferenza ONU sul Clima in programma a Glasgow dal 30 ottobre al 12 novembre: 30.000 delegati, tra cui capi di stato, esperti e attivisti, insieme per negoziare un piano d’azione coordinato a contrasto del cambiamento climatico.
Ora la sfida di Salgado e sua moglie è quella di riuscire a far sedere ai tavoli anche gli Indios, che il governo di Jair Bolsonaro non è intenzionato a ospitare nella delegazione brasiliana. Ma anche sensibilizzare l’Occidente, affinché, ha detto Salgado: «tutti voi insieme con noi vi schierate e vi attiviate per la protezione dell’Amazzonia».