“O que arde”, il dramma della natura bruciata. A Perugia, proiezione e dibattito

La pellicola di Oliver Laxe, premiata nel 2019 a Cannes, sarà proiettata lunedì 18 ottobre nell'ambito del festival PerSo. Una preziosa opportunità per riflettere, dentro una trama severa ma ammaliante, sul dilemma della coscienza al cospetto dei luoghi dati alle fiamme Prenotazione gratuita ma obbligatoria a questo link
11 Ottobre, 2021
3 minuti di lettura

Il fuoco, ovviamente. Poi la terra. Bruciata, feconda per un istante e di nuovo spoglia, annientata. “O que arde”, la pellicola di Oliver Laxe vincitrice del Premio della Giuria nel 2019 a Cannes (sezione “Un Certain Regard”), si pone come una discesa nel silenzio della propria interiorità, nel dilemma del perdono, nel dramma del ritorno sui luoghi disseccati, riarsi di un passato con il quale è difficile ma obbligatorio confrontarsi. Una storia difficile, severa ma ammaliante che sarà proiettata lunedì 18 ottobre, alle ore 21.00, presso la splendida Sala dei Notari nel Palazzo dei Priori di Perugia all’interno delle attività promosse dal Centro di Studi galeghi in collaborazione con “PerSo – Perugia Social Film Festival” e Sapereambiente (ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a questo link).

 

 

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Il film rappresenta la seconda fiction del cineasta franco-spagnolo, dopo l’impressionante “Mimosas”, con il quale Laxe si era aggiudicato il Grand Prix della Semaine de la Critique a Cannes nel 2016. Sei anni prima il regista, trentenne e ormai fra le rivelazioni del cinema internazionale, aveva presentato alla Quinzaine des Réalisateurs il documentario  “You All Are Captains”, altro capolavoro d’immagini e atmosfere. E il nucleo critico di “O que arde” si rivela proprio in termini visivi, complice la direzione della fotografia di Mauro Herce.

Già dalla prima sequenza: quando i fari delle macchine edili squarciano l’oscurità aprendo un varco nella foresta, come a introdurre la regressione dell’immaginario, un cortocircuito emotivo-visivo che rimanda all’impossibilità di comprendere, di discernere il reale.

È questa la condizione che investe Amador (Amador Arias), un quarantenne rilasciato dopo due anni di prigione, «piromane che ha bruciato l’intera collina di Lugo», tornato a vivere dall’anziana madre (Benedicta Sanchez) nel suo villaggio in Galizia.

 

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La banalità dell’esistenza, marchiata dallo stigma dell’infamia, s’inquadra in confronti irrisolti, nelle domande basiche dell’anziana madre («Hai fame?») e nel silenzio-condanna dei vicini (solo una volta, a mo’ di battuta caustica, qualcuno dirà: «Hai da accendere?»), mentre il rapporto con il mondo procede per scarti e omissioni, piccoli atti di resistenza alle norme.

In questa prospettiva “O que arde” diventa anche un film sul linguaggio del quotidiano, sul rivelare ciò che la creanza riduce, nel momento in cui i personaggi si mostrano dinnanzi all’estraneità di Amador.

Preceduto dalla sua storia («È il piromane?», «Si è lui»), questo individuo riflette i dubbi degli astanti, perturba i loro orizzonti di attesa per poi spogliarli delle convinzioni, dell’incontinenza verbale con cui si colma l’imbarazzo. Ne è esempio un dialogo tra il protagonista ed Elena (Elena Mar Fernández), una veterinaria locale che non sa – o non ammette – quel che riguarda Amador: «Ti hanno parlato di me?», «Beh… sai come sono le persone».

 

Un fotogramma di "O que arde"
Una scena di “O que arde”, di Oliver Laxe, premiato nel 2019 a Cannes

 

Questo silenzio opprimente, velato di una malinconia appena sottotraccia, dona al lavoro di Oliver Laxe un’estetica “dissidente”, che fa del non-detto uno strumento di lotta, un’indagine sul senso e il suono di una vita “extra-ordinaria”. È la musica il dato parlante, sin dall’incipit in cui risuonano le note di Vivaldi, quasi un’anticipazione della devastazione emotiva. I colori, che provengono non dal reale, non dall’immagine che abbiamo della natura, ma dall’Erebo della psiche, dai recessi della mente, sono una sonda sulle tenebre, il diaframma attraverso cui lo spirito riesce a cogliere l’insondabile.

Non a caso, un momento di tenerezza tra Elena e Amador è connotato dalla musica e da colori, tenui, appena acquietati, quando ascoltando “Suzanne” di Leonard Cohen lei dichiara: «Non c’è bisogno di capire i testi per apprezzare la musica».

 

 

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Nell’alternarsi di immagini e volti che puntellano la trama, Laxe favorisce l’allontanamento dello spettatore nell’asciuttezza contenutistica che non induce all’immedesimazione. Impone piuttosto di scandagliare nei rapporti umani, un corpo a corpo con il dolore taciuto. Più che un re-enactment di rigore estremo, a cavallo tra documentario e opera fittiva, “O que arde” è dunque un film spoglio, che rifugge la gratuità visiva per godere della ricerca, per lasciare a chi guarda il fascino di uno stato primario sia esso visivo, mentale, o ancora interno alle relazioni.

 

Un fotogramma di "O que arde"
La direzione della fotografia di “O que arde” è di Mauro Herce

 

Oliver Laxe d’altro canto non cerca eroi, non ha una predilezione per il laconico Amador di cui pure indaga i respiri, lo sguardo dolente di chi prova a ri-costruirsi. C’è il male nel suo mondo, un male che serpeggia lento, insidioso, si incunea negli spazi quotidiani per scarnificare il reale.

E la natura è feroce, bellissima, in armonia con l’uomo finché non giunge il fuoco, la cupidigia, la sua brama demolitrice.

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