La notizia della sua morte l’ha data Stefano Boeri, con un post su Facebook. Vittorio Gregotti è morto stamattina, 15 marzo, a Milano, a 92 anni, a causa di una polmonite causata dal coronavirus.
«Se ne va in queste ore cupe – si legge sulla pagina di Boeri – un maestro dell’architettura internazionale».
Urbanista di fama internazionale, Gregotti è stato uno dei decani dell’architettura moderna italiana. Unico architetto a far parte del Gruppo 63, amico di musicisti, artisti, intellettuali (basta citarne tre; Luciano Berio, Umberto Eco, Furio Colombo), fu saggista, docente universitario, redattore e in seguito caporedattore e direttore della storica rivista di architettura Casabella.
Una lezione di Vittorio Gregotti al Politecnico di Milano (2011)
In qualità di docente insegnò alle Facoltà di Architettura di Milano e Palermo, e fu visiting professor alle Università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Losanna, Harvard, Filadelfia, Princeton, Cambridge e al MIT di Boston.
Solo tre anni fa una mostra ne ricordava i sessant’anni di lavoro e gli oltre 1600 progetti, sparsi per il mondo. Sua la risistemazione di Potsdamer Platz a Berlino, i progetti del Teatro degli Arcimboldi a Milano, del Gran Teatro Nazionale di Pechino e della Chiesa di san Massimiliano Kolbe, a Bergamo. E poi: lo stadio di Genova e quello di Barcellona, il piano regolatore di Torino, il centro culturale Belem di Lisbona, il piano di edilizia popolare a Cefalù e il Centro ricerche dell’Enea a Portici. Sua anche la sistemazione del Parco archeologico dei Fori imperiali a Roma così come la trasformazione delle aree intorno alla Bicocca, alla periferia di Milano, e il nuovo quartiere residenziale nell’area di Pujiang, in Cina. E poi, quello che rimane forse il suo progetto più controverso, contestato: lo Zen di Palermo, da lui definito «Un buon progetto, che non è stato realizzato come avrebbe dovuto». Il suo errore, dichiarò anni dopo fu quello di «non aver capito la mafia».
Studioso e amico di maestri del razionalismo come Gropius, Van de Velde, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, nel 2017 decise di chiudere il suo studio, fondato nel 1974. In un’intervista al Corriere della Sera, spiegava così la sua decisione:
«Il potere finanziario è globale e vuole progetti globali, che vadano bene in ogni parte del mondo (…) All’architetto, ormai, si chiede solo di creare un’immagine più originale possibile, allontanandoci dalla nostra storia, dalle nostre radici».
Non si sentiva più a suo agio in un mondo in cui a decidere, persino forme e strutture di palazzi, città e quartieri, erano ormai solo multinazionali e grandi fondi di investimento.