«Quando ho cominciato le riprese, quattro anni fa, di tre cose ero sicuro. Non volevo fare un film che fosse un mero documentario o un atto di accusa socio-politico, né tantomeno uno sdolcinato ritratto di persone di cuore che fanno cose buone». Fosse ancora vivo, Alfred Hitchcock avrebbe senz’altro pensato ad un distopico e attesissimo Uccelli 2. Il giovane regista indiano Shaunak Sen, invece, ci regala un film assolutamente poetico e insieme disperato, un inno alla dedizione che è, anche, una denuncia politica e una riflessione filosofica sul nostro presente, predatorio e appassionato come i suoi protagonisti. Per questo, domenica notte, alla premiazione degli Oscar, abbiamo fatto il tifo per All that breathes, il documentario che ha già vinto il premio per il miglior documentario al Sundance e “L’oeil d’or” a Cannes, e si annuncia ora tra i favoriti anche agli Academy Awards.
Nuova Delhi. Esterno notte. Una montagna di rifiuti e pozzanghere di acqua sporca e fangosa dove si aggirano ratti, cani rognosi e loro, i protagonisti del film, i nibbi bruni, piccoli rapaci spazzini che a migliaia volteggiano nel cielo perennemente grigio della città. Comincia così All that breathes, tra gli scarti delle industrie di carne e della metropoli, tra le creature meno attraenti del mondo animale. I nibbi bruni scavano nel fango dello Yamuna, l’affluente del Gange che attraversa la capitale indiana e diventa, dopo 350 chilometri di acque pulite, dalla sorgente nell’Himalaya, il fiume più inquinato del mondo, a causa degli scarichi fognari e industriali della città. Come piccole arpie, scavano tra gli scarti, si immergono nell’acqua schiumosa dove non sopravvive alcuna specie, poi si librano in volo e infine cadono, a centinaia: nelle strade, tra la gente, sui parabrezza delle macchine, nel fiume, sulle terrazze delle case, neanche fossero le rane della piaga biblica, le rane dello splendido Magnolia di Paul Anderson che vinse l’orso d’oro a Berlino nel 1999.
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«Se vivi a Nuova Delhi, non puoi non preoccuparti continuamente dell’aria, perché è così inquinata che il cielo è sempre monocromaticamente grigio», racconta Sen. «L’aria è qualcosa di tangibile, puzza, è oliosa e pesa, sembra di acciaio. Sempre inquinata». Le scuole spesso restano chiuse per decreto e migliaia sono le morti premature che si possono facilmente attribuire all’aria pestilenziale. Persino per i nibbi bruni quell’aria è irrespirabile. E poi ci sono gli aquiloni, i manja, un hobby nazionale come sappiamo dal famoso libro di Hosseini, dove i fili sono spesso tempestati di polvere di vetro o di metallo, per spezzare, nelle gare, quelli degli avversari. C’è una legge del 2017 che li vieta, dopo che un filo di aquilone “truccato” uccise un uomo che andava in bicicletta tagliandogli la gola, ma si sa che fine fanno le leggi impopolari…
L’aria avvelena i nibbi, addirittura li acceca, i fili recidono le ali ed è qui che entrano in scena i fratelli Nadeem Shehzad e Mohammad Saud, timidi ed eroici coprotagonisti, chirurghi autodidatti per necessità, fondatori della Wildlife Rescue. Nello scantinato del multipiano dove ha sede la loro piccola fabbrica di dispenser di sapone, da venti anni vanno in giro per la città a raccogliere uccelli feriti o tramortiti per curarli fino a che non possono tornare a volare. «Il primo che abbiamo trovato sembrava uno strano rettile preistorico, con le penne e il becco, e lo abbiamo portato all’ospedale degli uccelli di Delhi gestito dai giainisti – raccontano – Ma loro sono vegetariani e si sono rifiutati di alimentare i nibbi con la carne. Sarebbero senz’altro morti, così abbiamo cominciato a curarli noi. Perché questa distinzione tra vegetariani e non vegetariani?».
All that breathes è così, pieno di domande essenziali sul senso della vita, sui confini tra bene e male, ortodossia e prassi, natura e cultura, noi e “loro”, gli umani e tutto ciò che non lo è, nel conflittuale presente di un racconto che ci mostra il collasso ambientale globale ma anche le tensioni politiche tra il governo nazionalista indu e la popolazione, in larghissima parte musulmana.
Tutto diventa “atmosfera” in questo ambizioso ritratto in cui l’umiltà dei due fratelli riluce come le pagliuzze d’oro nel fondo terroso del Klondike, perché è da ognuno di noi che può – deve – partire il cambiamento.
In venti anni ne hanno salvati 20mila, di nibbi, sapendo che molti sarebbero morti comunque di lì a poco. Perché lo fanno? Si è chiesto Sen. Non è solo per osservare il Thawab, l’atto di pietà della religione musulmana: «Si sono dedicati alla causa in modo così totale che forse neppure loro sanno veramente perché. Ma mi sono sembrati così lontani dal sentimentalismo del nostro cinema e così crudelmente ottimisti, stoici anche rispetto a ciò che li minaccia, che non ho più avuto necessità di incontrare nessun altro. Volevo fare un film sull’aria, sul cielo e la loro gioia quando un nibbio prende il volo è contagiosa». L’aria è di tutti, ce ne siamo ben accorti in questi anni in cui respirare era apparentemente pericoloso. A New Delhi lo è davvero, ogni giorno.
«Non ci si prende cura di qualcosa perché si appartiene alla stessa religione, allo stesso paese o partito politico», sono le parole finali del film.
«La vita stessa è fratellanza. Viviamo in una comunità di aria. Non dovremmo far differenze tra tutto ciò che respira». E tutto respira.
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