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(Foto: courtesy of Caterina Moro)

Arte e sostenibilità, la moda di Caterina Moro

Vestiti creati come opere d'arte, con materiali e spunti dal mondo della natura. Che mettono in discussione la serialità e la sovrapproduzione del fashion system, valorizzando il processo creativo e il rispetto dell'ambiente
26 Giugno, 2024
4 minuti di lettura

Si chiama Caterina Moro, la stilista italiana che, lasciandosi ispirare dal mondo dell’arte, sta mettendo in discussione il fashion system e proponendo una dimensione più umana e sostenibile di approccio alla moda e all’atto di vestirsi. Con quattro parole, “Textile art for human bodies”, riassume la mission che la distingue: l’accento è sul potere dell’arte di aiutarci a ritrovare i giusti tempi che la creatività richiede, nel rispetto dei corpi e dell’ambiente.

Moda e arte, ma…

Abbiamo visto più volte opere d’arte entrare in relazione con la moda. Dalla street art ai grandi autori del passato che segnano le texture degli abiti, dai tagli di Fontana ai materiali di Burri che hanno ispirato l’alta moda, fino ai fenomeni più commerciali come quello di Shepard Fairey che ha creato il brand Obey legato alla sua produzione artistica. Fin qui dunque niente di nuovo: da un’opera d’arte a una maglietta sappiamo che il percorso è breve, e sappiamo anche che una produzione nata dalla fine art può diventare altamente seriale alimentando il meccanismo di sovrapproduzione della fast fashion.

Anche Caterina Moro prende ispirazione dal mondo dell’arte, ma ciò che più caratterizza questa scelta non è l’esperienza estetica, quanto l’osservazione dei processi creativi.

 

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Restituire valore al tempo della creazione e alla relazione tra opera e ambiente diventano i punti fermi del suo lavoro. Si rivolge all’arte e alla street art sottolineando l’unicità dei pezzi, il valore che un prodotto, così come un quadro o un graffito può avere se si svincola dall’overproduction e dalla massiccia ripetizione seriale.

Arte tessile per i corpi umani

Con Germano Serafini nasce Heima, un lavoro in cui foglie e funghi raccolti personalmente nei boschi dalla stilista, entrano nella camera oscura del fotografo per diventare pattern dei nuovi abiti e ricordare la poetica intimità del rapporto umano con la natura. A questa collaborazione segue quella con Lucamaleonte da cui nasce la collezione Pancratium Maritimum ispirata al giglio dipinto dallo street artist nel quartiere romano di Ostiense. «Volevo fare uno shooting con il murales del giglio dipinto da Lucamaleonte, ma girando per Ostiense non riuscivo a trovarlo: l’avevano cancellato per via di alcuni lavori. Ho contattato l’artista e abbiamo deciso di far rivivere il giglio sugli abiti della nuova collezione.  Ciò che mi piaceva particolarmente era il fatto che Luca avesse dipinto il giglio lasciando visibile il muro sporco e imbrattato, mi sembrava il simbolo della bellezza che nasce dove meno te la aspetti. Ho cercato di creare lo stesso effetto stampando con colori bio su tessuti grezzi e naturali. Così il murales che era stato cancellato ha trovato una nuova vita». Le collaborazioni proseguono con Carina Sohl e di nuovo con Germano Serafini portando ogni volta la stilista a confrontarsi con i tempi e il respiro che l’arte richiede.

 

(Foto: Courtesy of Carina Sohl)

 

Una Collezione Privata nell’armadio

I materiali sono importanti, così come i colori che vengono utilizzati nell’industria tessile. Ma la Moro sottolinea che anche qualora si utilizzassero tessuti e tinte altamente ecocompatibili, la macchina produttiva creerebbe comunque un impatto ambientale che va dai primi passi di una produzione fino alle discariche tessili dove prima o poi finirà l’abito. «Pensare che un trend generalmente dopo sei mesi sia già vecchio e che bisogna preparare una nuova produzione è un atteggiamento mentale che non è più sostenibile. Quello che davvero deve cambiare è la mentalità». Spiega Moro: «Nella mia comunicazione sottolineo come noi stilisti abbiamo il dovere di educare il cliente affinché si interroghi sul perché acquista vestiti. Siamo educati a vestirci per seguire dei trend, e questo al di là delle possibilità economiche. Lo stesso trend può essere un abito di boutique o di un prodotto a basso prezzo di qualche multinazionale di fast fashion».

Nell’idea della Moro sia gli stilisti che producono i vestiti, che chi li acquista, potrebbero cambiare la loro prospettiva considerando l’oggetto abito alla stregua di un’opera d’arte.

Quello che sarà contenuto in un armadio diventerà una sorta di collezione privata e gli abiti acquisteranno un valore diverso. I creativi non possono essere considerati (e considerare sé stessi) come macchine produttive «Se così fosse avrebbe più senso farle fare all’IA le collezioni» aggiunge ridendo. «Le collezioni devono essere presentate quando il progetto creativo è maturo, non quando il fashion system lo richiede».

Uscire dalla ruota del criceto e rallentare

«La nuova sostenibilità deve partire dai processi» sottolinea Moro evidenziando come il mondo della moda sia una sorta di ruota del criceto nella quale sembra indispensabile restare inseriti per poter continuare a lavorare. Eppure non è così. Nel percorso biografico di Caterina, più dei mesi del covid, che hanno portato a cigolare la grande ruota del fashion system a livello mondiale, ha segnato la sua riflessione un’esperienza personale che le ha impedito di partecipare alla fashion week del 2023. Questa uscita forzata dalla corsa obbligata dietro le collezioni delle stagioni l’ha portata a riflettere sull’importanza, ed effettivamente anche sulla fattibilità, di uscire dal modello imposto dalle fashion weeks e proporre un approccio alla moda più sostenibile perché meno consumistico.

«Il covid ha rappresentato uno stop per il fashion system e un’occasione per ripensare alcune modalità. Si è iniziato a riflettere sulla possibilità di ridurre il numero di sfilate e rendere il sistema della moda più sostenibile. Ma dopo pochi mesi tutto è tornato come prima e ora, la sensazione che ho è quella di trovarmi davanti all’orchestra del Titanic: si continua a suonare mentre la nave affonda».

 

 

 

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