Se oggi le questioni ambientali sono parte integrante del dibattito pubblico, al punto da essere assunte come temi cardine dell’agenda politica e degli investimenti europei per gli anni a venire con l’European Green Deal, lo dobbiamo sicuramente a donne, come Laura Conti, che si sono battute perché gli allarmi lanciati dagli ambientalisti venissero presi seriamente in considerazione.
Dal suo “Visto da Seveso” (1977) che rappresenta una pietra miliare non solo per il pensiero ambientalista italiano, ma per come monitoriamo il rischio industriale (si veda la Direttiva Seveso del 1982), Laura Conti ha dedicato la sua vita all’analisi dei problemi ambientali attraverso la ricerca scientifica e il coinvolgimento della popolazione nell’individuare soluzioni scientificamente fondate ma anche socialmente accettabili. Nel lavoro di Conti il paradigma allora emergente dell’Ecologia Ecosistemica elaborato dall’ecologo statunitense Eugene Odum (1973) diventa cruciale per rendere il sapere ecologico condiviso e democratico. Studiare un fenomeno per poi applicare ad esso il sentimento politico rappresenta la cifra della missione sociale di Conti, la quale ritiene che istruire ed informare è il modo migliore per permettere alla popolazione di partecipare in maniera attiva.
Partendo dalle radici marxiste, ma a volte anche in dissenso con esse, Conti ha contribuito a quel cruciale passaggio da una concezione estetico-morale delle questioni ambientali (intese come questioni meramente legate alla distruzione della natura e del paesaggio), ad una visione scientifica e politica del rapporto tra esseri umani ed ecosistemi. Lentamente e faticosamente i discorsi degli ambientalisti sono diventati parte della conoscenza e anche della conoscenza e della sensibilità comune.
L’ambientalismo scientifico alla cui nascita ha così profondamente contribuito, emerge infatti come critica puntuale di quelle politiche che determinano conseguenze ambientali devastatanti e impattano sulla vita delle persone. La volontà di dare all’ambientalismo una connotazione politica di sinistra, evitando ogni forma di buonismo ecumenico, lo arricchisce di istanze egalitarie nella convinzione che non esistono problemi ambientali che non siano anche problemi sociali.
È dunque inevitabile che il lavoro di Laura Conti rifletta il percorso e anche la difficoltà con cui il marxismo italiano degli anni ‘70 – di cui Laura adotta l’interpretazione sociale ma rifiuta il dogmatismo – si accosta al movimento ambientalista, allora emergente, cercando di interpretare la complessa relazione tra scienza, potere e società. Prefigurando molti dei temi che saranno centrali nel dibattito internazionale dei decenni successivi, Conti si interessa di temi propri della giustizia ambientale, degli oligopoli dell’energia, dei conflitti per il controllo delle risorse naturali e della gestione del rischio ambientale.
Mi sono spesso chiesta a cosa oggi Laura Conti avrebbe dedicato la sua attenzione. Si sarebbe chiesta quali sono le insidie di un ambientalismo di sistema, come quello che stiamo vedendo affermarsi in questi anni in Europa, in cui le istanze più “scomode” del pensiero ambientale vengono normalizzate ed entrano a far parte dell’agenda politica internazionale?
Sebbene questa sembri l’unica strada percorribile, è difficile sperare che i compromessi cui i decisori politici devono sottomettersi per giungere a degli accordi con i vari attori della governance globale potranno essere efficaci. Le questioni ambientali sono complesse e controverse, spesso chiamano responsabilità precise, ma raramente esistono soluzioni in grado di non scontentare nessuno (pena il loro non essere delle vere soluzioni). Difficilmente sarà possibile continuare a garantire l’attuale stile di vita alle popolazioni del Paesi più ricchi o supportare il ritmo di crescita economica (e quindi anche dei consumi) dei Paesi emergenti, o anche continuare a ignorare la pressione delle masse di disperati che dai Paesi più poveri e devastati dalla guerra, aspirano ad una vita migliore. Difficilmente il progresso tecnologico potrà evitare gli effetti del cambiamento climatico, della sovrappopolazione e la pressione sulle risorse, le conseguenze dell’inquinamento sulla salute degli esseri viventi, e l’impatto degli ingenti movimenti di beni e persone che attendono la fine della terribile pandemia che stiamo vivendo per riprendere a pieno regime.
Si sarebbe chiesta oggi Conti quali sono i costi sociali della transizione energetica, o quelli ambientali della svolta digitale e della gig economy? Ovviamente non saprei dirlo, ma è certo che il suo lavoro ha fornito a noi oggi gli strumenti critici e anche il compito di provare a rispondere a queste nuove domande.
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