Lo scorso 30 gennaio intorno alle 17.00 è morto ad Avellino Francesco Carbone, 79 anni, romano, conosciuto da tutti quelli che seguono la danza contemporanea e soprattutto il Teatro Danza, per essere stato il fotografo di Pina Bausch, la coreografa tedesca fondatrice del Wuppetal Tanz Teater, considerata genio assoluto di questa espressione artistica.
Scrivo queste note non solo perché Francesco Carbone è mio fratello ma per raccontare l’eroismo di una sempre sorridente persona che ha attraversato più di 50 anni di storia contemporanea lottando da solo contro le avversità della sua condizione fisica, riuscendo a vivere come una persona perfettamente normale.


Qui desidero raccontare Francesco così come nessuno lo ha conosciuto veramente, a parte la sua compagna Alessandra Rosa che ha trascorso insieme a lui gli ultimi 10 anni della sua vita.
L’emiparesi e le prime cure
Francesco era nato a Roma il 5 ottobre del 1945 e dopo pochi mesi era stato colpito da una emiparesi per tutta la parte destra del corpo: soprattutto era rimasta offesa leggermente la testa, ma il braccio e la gamba in parte paralizzati. Da quel momento il compito dei miei genitori fu quello di fare di tutto perché riuscisse a vivere al meglio in una situazione così complessa. Dal 1945 al 1955 Francesco subì cure particolari e in alcuni casi anche fortemente traumatiche come l’elettroshock, fu operato alla mano e alla gamba e dovette trascorrere mesi e mesi in riabilitazione.
Ironico, estremamente attento alla vita intorno a se imparò a nuotare. A scuola prendeva in giro tutti: alunni e professori. La sua vita oscillava con alti e bassi dovuti a ripetute crisi epilettiche che uno specialista di Marsiglia riuscì a tamponare con una serie specifica di medicinali.


La prima macchina fotografica
La svolta per Francesco avvenne quando gli fu regalata una macchina fotografica. Da allora in poi, aveva 16 anni, non smise un giorno di averla accanto, di imparare soprattutto a tenerla e a scattare con la sola mano sinistra, senza muoverla,
Con una forza di volontà estrema Francesco riversò tutta se stesso nella fotografia e non riesco a ricordare come, forse con l’aiuto di mio padre, entrò a far parte dei dipendenti che lavoravano alla società cinematografica Ponti-De Laurentis come fotografi di scena. Per anni seguiva i giorni di lavorazione di film che potevano essere interpretati da attrici come Jane Fonda e da registi come Roger Vadim o Pier Paolo Pasolini.


Gli anni in piazza
Francesco lascia l’Italia per seguire un regista in Polonia, dove impara facilmente la lingua, e quando torna a casa diventa reporter professionista e si lancia nella mischia dell’attualità: trascorre gli anni della contestazione, l’autunno caldo, il movimento studentesco, le eversioni neofasciste, le organizzazioni della lotta armata extraparlamentare fino alle Brigate Rosse. Ricordo, allora lavoravo a La Stampa di Torino, che lo incontravo per strade e piazze dove capitavano incidenti, scontri, cariche della polizia, lancio di lacrimogeni. Lui era lì con altri fotografi, con il suo amico Tano D’Amico. Ma tutti lo conoscevano per la sua incrollabile capacità di fotografare sempre e dovunque.
L’incontro con Pina Bausch
Quando gli chiedevo se avesse bisogno di aiuto mi sorrideva scrollando le spalle. Quando gli chiedevo come facesse a cambiare rullino, mi guardava come dire ma che ti credi che sono handicappato? Lavorava da freelance, stampati i negativi faceva la spola tra Paese Sera, Manifesto, Unità e Messaggero. E vendeva le foto in bianco e nero con dietro il timbro a inchiostro blu che portava il suo nome.
Si avvicinò al teatro per caso e capì che era un mondo inaspettato e affascinante. Fu così che, di colpo, partì in treno per Wuppertal, in Germania. Era stato il giornalista Aldo Papa, grande esperto di danza, che gli parlò di Pina Bausch. «In Italia non la conosce nessuno» gli spiegò e lo invitò ad andare.


Le mostre internazionali
A questo punto la storia la si conosce. Francesco l’ha raccontata tante volte e tutte le foto sia di Pina Bausch che delle coreografie che apparivano su giornali e riviste in Italia erano le sue. Trentotto anni in giro con la compagnia di Wuppertal, decine di mostre da Hong Kong a Los Angeles, ma anche al Teatro Argentina di Roma o al Maschio Angioino di Napoli. Sorridendo mi spiegava che spendeva più soldi di quelli che gli venivano dati per le mostre perché le fotografie dovevano essere stampate al meglio, le più grandi possibili, imballate e spedite anche via nave, ma che non potessero rovinarsi di un millimetro.


Un eroe della vita quotidiana
Qui finisce il mio ricordo di Francesco Carbone. Non sono entrato nel merito critico del suo lavoro perché le foto di Francesco sono stati definiti capolavori da Pina Bausch che era lei a scegliere gli scatti di Francesco per i manifesti, le brochure, i programmi di sala.
Avrei potuto raccontare storie su storie dei suoi viaggi e della sua vita in Sudamerica e di come cadde dal palcoscenico dell’opera Garnier di Parigi, rompendosi il femore, ma poco cambierebbe nell’inquadrare una persona così dolce come mai ho conosciuto. Un eroe, lo ripeterò sempre, della vita quotidiana, quella normale di tutti noi.


Lui è stato il fotografo con una sola mano («la sinistra» sottolineava sorridendo) a cui si dovrebbe fare un monumento.
A Fabrizio Carbone, ad Alessandra Rosa, ai familiari e agli amici di Francesco Carbone,
l’abbraccio affettuoso di tutta Sapereambiente.