Vado su un canale YouTube che gestisco, legato a un progetto. Forse perché non vi accedo da un po’, Google mi avverte che nome utente e password non bastano e devo immettere un codice che mi mandano via email, così sono sicuri che sono io. D’accordo! Ricevo e immetto, ma non va. Riprovo, niente. Google per riconoscermi vuole anche il mio numero di telefono. Ora, posso capire che il telefono sia il massimo della sicurezza (non come le password, che stanno in qualsiasi agendina di amici e corrispondenti!), ma non ricordo di averlo dato a Google, e certo non per quell’account. Come fanno a identificarmi da un numero che non hanno?
Appesi ai respiri dei giganti (della Rete)
Che qualche rischio lo corriamo, stando appesi per ogni respiro ai giganti delle Rete, ne abbiamo ogni tanto avvisaglie come quando, il 14 dicembre 2020, Google è andato “in crash” e il mondo per alcune ore si è bloccato. Ma un problema ancora più grande sono certi comportamenti di noi utenti che, per “comodità”, leggerezza, incoscienza, stiamo progressivamente consegnando la Rete, che è nata libera e condivisa e resta la più grande occasione di democrazia della storia, alla gestione privata e commerciale di un pugno di aziende che, sfruttando una risorsa comune, sono riuscite a piazzare alcuni prodotti di successo…
Se non paghiamo, il prodotto siamo noi
Facile, trendy, quasi automatico, affidare la propria email a un unico fornitore di servizi: [email protected]. Facile per un’ impresa commerciale, culturale e perfino politica non stare lì a sviluppare un proprio sito web, tanto ci sono Facebook e Instagram. Facile (?) per la didattica a distanza, affidarsi a pacchetti tutto compreso delle “grandi marche”. Ci sono dunque mezzi facili e potenti di comunicazione istantanea e globale che, entrati da un giorno all’altro nel quotidiano di miliardi di umani, dai più usati come tra amici al bar, in realtà coinvolgono l’economia, la politica, la pace e la guerra, la vita e la morte di persone e nazioni.
Quanto “valiamo” sui social network?
Nessuno ci ha educato a usarli, non ci siamo garantiti spazi indipendenti con regole internazionali e condivise, e alla tecnologia più recente semplicemente applichiamo regole di “mercato” vecchie di decenni, col risultato che in una unica goffa catasta di dimensioni planetarie si accumulano le foto dei nostri gattini, i tweet del presidente degli Stati Uniti, i post trendy degli “influencer”, a generare profitti di miliardi con la pubblicità e il tracciamento di centinaia di milioni di utenti.
Vivere in scenari orwelliani e non saperlo
Siamo sempre “connessi”, ma comunichiamo pochissimo e litighiamo molto, la nostra idea di “futuro” assomiglia in modo sorprendente alle vite automatiche e ai Grandi Fratelli immaginati negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, inseguiamo in modo ossessivo il mito oggi ormai centenario della “velocità”, che ci fa correre di continuo senza lasciarci il tempo di pensare, quando potremmo lasciare che siano le macchine a correre per noi.
E l’abbondanza di aggeggi digitali, consumati più che usati, non ci sta rendendo più felici.
Un altro modo di “fare Rete” è possibile?
Proprio la Rete, negli anni ’90, aveva dimostrato che tecnologicamente saremmo ben oltre, costringendo il più grande monopolio della storia, Microsoft, che allora controllava il 95% del mercato dei Pc, ad adeguarsi e a rincorrere un’iniziativa non commerciale e non a scopo di lucro, libera e condivisa. Software libero non significa solo alternative gratis ed efficienti ai programmi commerciali, per fare poi più o meno le stesse cose, ma un altro modo possibile di produrre e di essere, oltre la logica mercantile che ha dominato il mondo negli ultimi 200 anni.
Gli algoritmi e noi
Significa che gli “algoritmi” non sono necessariamente ostili, ma dipende da chi li progetta e li gestisce e che, come quando scriviamo insieme Wikipedia, o ci facciamo mappe e street view con Mapillary, anche noi persone comuni possiamo oggi sommare le intelligenze, potenzialmente a milioni, in sempre più rami delle umane attività, per risolvere insieme i piccoli e grandi problemi del pianeta, conoscere, inventare, divertirci, stare bene.
Piccolo manifesto per una “degooglizzazione” consapevole
In alternativa a YouTube – oltre a Vimeo e ad altre proposte commerciali che hanno il principale difetto di essere un po’ meno gratis – esistono anche reti di piattaforme video libere, come Peer Tube, emanazione del progetto Framasoft che, un byte alla volta ci propone, tutti insieme, di “degooglizzare” internet.