A volte ritorna. Quante volte si sente dire “bisognerebbe cominciare da quando sono piccoli, da quando vanno a scuola…”. Ebbene, dopo qualche decennio di assenza, interrotto da alcuni tentativi sperimentali, la tanto evocata “educazione civica” si ripresenta fra gli insegnamenti nella primaria, nella secondaria di primo grado e nella secondaria di secondo grado (se qualcuno fosse rimasto indietro con la terminologia parliamo di elementari, medie e superiori). Con un’anteprima, per le nuovissime generazioni, già dalla scuola per l’infanzia dove si prevedono attività di sensibilizzazione sulla cittadinanza responsabile. Lo stabilisce la “riforma” (le virgolette sono d’obbligo) del governo Conte appena entrata in vigore sulla falsariga del Decreto Ministeriale emanato lo scorso 22 giugno (in applicazione della Legge approvata ad agosto 2019) con tanto di Linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica.
Così questa disciplina, introdotta negli anni Sessanta da Aldo Moro e poi considerata un po’ come la cenerentola del programma, si ripresenta nell’anno in cui i comportamenti individuali all’interno della comunità e il senso civico rappresentano i veri valori da celebrare. Con qualche differenza, rispetto alle origini, che fa comprendere la natura e le ambizioni di questo provvedimento: l’educazione civica, che dovrà coprire almeno 33 ore l’anno, sarà divisa in tre blocchi, vale a dire la Costituzione, lo Sviluppo sostenibile e la Cittadinanza digitale.
Soprattutto il nuovo insegnamento è da intendersi come trasversale, in regime di contitolarità e soggetto a valutazione di fine anno.
Suona strano che nelle secondarie di secondo grado la nuova materia si debba affidare, dove ci siano, ai docenti delle discipline giuridiche ed economiche, ma tant’è.
Una buona notizia, dunque? Mai puntare i piedi, per carità, di fronte a un passo, per quanto piccolo e magari un pochino sbilenco, che va nella direzione giusta. Specialmente in un periodo nel quale i problemi sono di portata immane. Perciò festeggino pure i ministri coinvolti, Azzolina e Costa, che la pentastellata Paola Taverna rappresenta abbracciati in un post su Instagram:
“Educazione ambientale: da settembre si studierà nelle scuola di ogni ordine e grado” si legge.
Ecco però il punto, che temiamo vada oltre questa esternazione via social. Perché è proprio questa idea di “studiare” l’educazione ambientale (ma anche la Costituzione, con il rispetto che merita, e le stesse culture digitali) che ci sta stretta, che sa di polvere. Perché è la scuola tutta (lo ha spiegato più volte, con argomenti migliori dei nostri, da questa rivista la nostra Michela Mayer) che deve mettersi in discussione nei suoi metodi, nella sua filosofia organizzativa, nel rapporto con le nuove generazioni, soprattutto in questa fase di massima crisi, se vuole partecipare al cambiamento.
Andatelo a dire ai ragazzi che animano i movimenti giovanili grazie ai quali l’ambiente è tornato durante gli ultimi anni anche nelle piazze italiane. Studiate educazione ambientale così domani v’interroghiamo. Ma per cortesia. Ciò che sanno l’hanno appreso partendo da una questione d’interesse pubblico che gli sta a cuore (nell’ottica in qualche modo del cosiddetto “service learning”), quello che non sanno (ed è certamente molto) continueranno a introiettarlo indagando, dibattendo, impegnandosi. Magari anche su qualche libro di testo nel quale fanno capolino i fondamentali dell’ecologia ma certo non sono quelli gli assi portanti della loro formazione.
Forse bisogna chiarire questo, ancora oggi, a chi si prende responsabilità politiche: le riforme non si fanno aggiungendo dei pezzi a un edificio già costruito, si fanno cambiamento il progetto.
Il sistema educativo va rivisto nel profondo perché colga dalla realtà, attraverso il lavoro sul campo e le azioni utili all’ambiente, gli spunti per i processi di apprendimento e sia capace di generare futuro.
Leggi il Decreto ministeriale e le Linee guida per l’educazione civica
Perciò teniamoci quanto di valido emerge da questa “riformina” sapendo che ci saranno insegnanti motivati e robusti sotto il profilo metodologico, grazie anche all’importante ruolo d’innovazione svolto negli anni dall’associazionismo ambientalista e professionale, che sapranno trarne qualche frutto nonostante le difficili condizioni al contorno.
In fondo nel provvedimento i buoni propositi ci sono: le Linee guida fanno esplicito riferimento alla necessità di offrire un paradigma “diverso da quello delle discipline” al fine di “evitare superficiali e improduttive aggregazioni di contenuti teorici e per sviluppare processi di interconnessione tra saperi disciplinari ed extradisciplinari”. Ma il problema di una nuova scuola, è bene saperlo, capace di riorganizzare il pensiero più che di accumulare concetti, coerente con il progetto culturale del paese ma burocraticamente più libera, rimane urgente così come quello di un’educazione alla sostenibilità che vada oltre l’acquisizione di competenze e l’addestramento sulle buone pratiche.
Sarà questa una breccia per riuscirci? Il dibattito è aperto.