«Guai a chi tocca le mie rughe! – disse un giorno Anna Magnani – C’ho messo ‘na vita per farmele venì!». Alla voce romana di questa grande attrice forse possiamo affidare una traduzione nostrana dell’antica tecnica del kintsugi, l’arte di nobilitare i segni e le fratture che la vita, con tutti i suoi accidenti, scrive. Diversi secoli prima di Anna Magnani e molto più a Est, in Giappone, viveva sul finire del 1400 lo shogun Ashikaga Yoshimasa, uomo di profonda intelligenza legato al buddhismo zen.
Una leggenda racconta che un giorno Ashikaga Yoshimasa ruppe accidentalmente la sua tazza per la cerimonia del tè. Gli artigiani ai quali affidò il lavoro di restauro decisero di ricomporla utilizzando una resina mescolata con polveri d’oro. La tazza fu così trasformata in un oggetto di valore e da allora nacque la tecnica del kintsugi, riparare con l’oro. La leggenda, letta attraverso la prospettiva culturale dell’ambiente in cui è nata, è di facile interpretazione. Quello che oggi possiamo notare è quanto sia ancora preziosa l’abilità degli artigiani kintsugi in grado di dare nuovo valore ai traumi e alle fratture di un presente sempre più precario. E di fratture in questi tempi ne abbiamo viste e subite molte. Basti pensare alla terra amatriciana sconvolta dal sisma dove i pochi rimasti vivono un quotidiano confronto con le macerie: potente freno a mano tirato sul futuro.
Eppure, di terremoti la nostra terra italiana è antica conoscitrice: in seguito al drammatico terremoto del 1968 che distrusse la città siciliana di Gibellina, il freno a mano fu abbassato proprio dall’arte. Fu il sindaco Ludovico Corrao che affidò agli artisti il difficile compito di ricucire il ricordo della vecchia Gibellina, rasa al suolo, con la Nuova Gibellina che si andava costruendo a circa 20 chilometri di distanza.
Anche Alberto Burri rispose all’invito del sindaco scegliendo di lavorare direttamente sul territorio devastato dal sisma.Le macerie divennero parte integrante della più grande opera di land art mai realizzata: ottantamila metri quadrati di superficie nella vallata dove sorgeva l’antica città.
Nelle macerie Burri riconobbe il potere dei segni di una vita passata. L’immensa forza di centinaia di anni di vita conviveva nella stasi con l’altrettanto potente forza distruttrice. Il potere di questa energia non poteva essere negato, ma chiedeva di essere trasformato.
Le macerie furono compattate e ricoperte con il cemento, creando così quello che oggi è conosciuto come il Grande Cretto di Gibellina. Tra le macerie raggruppate Burri non mise oro, né collanti, ma lasciò visibili crepe completamente vuote. Alcune domande non hanno risposte. Alcuni traumi non possono essere rimarginati se non con il cielo. La profonda ferita della terra si è trasformata in arte. Il processo di nobilitazione del trauma è stato messo in atto e oggi è raccontato in un saggio dall’analista Massimo Recalcati (Albero Burri. Il Grande Cretto di Gibellina, Magonza Editore, 2018). L’opera, accompagnata dalle fotografie di Aurelio Amendola, è una testimonianza dell’effetto domino positivo generato dal gesto kintsugi.
Densa del rispettoso ricordo di ciò che è stato, mausoleo e al tempo stesso immagine al negativo di città, Gibellina, per dirla con Italo Calvino, è oggi città invisibile. La sua presenza non è più fisicamente percepibile, ma assume potenza in quanto assenza. Nel Grande Cretto vivono tutte le Gibellina immaginate, sopravvissute nei cuori, rese possibili per il solo fatto di essere pensate.
Oggi, possiamo esserne certi, tra l’intreccio delle sue vie a labirinto, nel bianco accecante del sole siciliano, si nascondono i resti di un’antica tazza giapponese insieme al sorriso e al cruccio della nostra Nannarella.