Gli studenti del Berchet e la nostra scuola che non vuole crescere

A fronte di un disagio in aumento nelle giovani generazioni, acuito dalla pandemia, molte istituzioni educative restano appiattite sulla performance e la competizione, anziché potenziare qualità e talenti delle persone che gli sono affidate: cittadini e cittadine del futuro
6 Aprile, 2023
4 minuti di lettura

Prima o poi doveva succedere. Dopo tanti numeri, dopo i quotidiani rapporti sul disagio e sulla sofferenza dei nostri giovani, dopo tanto parlare di loro, ecco che qualcuno di questi ragazzi invisibili ha preso un’iniziativa. Un’azione di rinuncia che è, nei tempi dell’iperpresenza, un atto rivoluzionario.

56 studenti hanno lasciato il liceo classico Berchet di Milano. Fanno notizia perché non è il “solito” abbandono degli ultimi.

La massiccia e inevitabile (?) dispersione scolastica degli istituti professionali (siamo il paese con più Neet d’Europa, il 16.6% di abbandoni al sud, il 13% la media nazionale). Al Berchet hanno insegnato Pio Foà e Mondolfo, si sono diplomati Gad Lerner, Oreste del Buono e Luchino Visconti… Un sondaggio interno ha rivelato che oltre metà dei ragazzi soffre di ansia e stress e molti cambiano strada. Chi resta, rinuncia a tutto quello che c’è fuori. Chi ha avuto un figlio che ha frequentato il classico o una scuola “buona” lo sa.

 

 

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Il disagio del nostro futuro

Sono mesi che veniamo bombardati dalle ricerche sullo stato di salute dei nostri ragazzi, cioè del nostro futuro. E i dati sono spaventosi. Lo erano già prima del 2019. Anche qui, il covid ha esasperato una situazione già grave e allarmante. Il rapporto Unicef rivela che 1 ragazzo su 7 dagli 11 ai 17 anni (89 milioni di ragazzi e 77 milioni di ragazze) ha un disturbo mentale diagnosticato, che ogni 11 minuti un adolescente si toglie la vita, una fra le prime quattro cause di morte per quella fascia di età. I paesi più colpiti? Europa occidentale, Nord America, Medio Oriente, Nord Africa. A casa nostra non va certo meglio.

L’Istituto Superiore di Sanità e il Consiglio nazionale degli psicologi hanno, tra i molti, denunciato i danni e l’incremento dei disturbi dati dalla reclusione forzata, dalla DAD e dal clima di terrore e di costrizione con cui è stata gestita la pandemia.

Da un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che analizza le famiglie italiane con figli minori di 18 anni, pubblicato nel giugno 2020, emerge che nel 71% dei bambini maggiori di 6 anni sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione; negli adolescenti, invece, i disturbi più frequenti sono somatoformi (come la sensazione di mancanza d’aria), quelli d’ansia e quelli relativi al sonno (difficoltà ad addormentarsi o nel risveglio). Anche l’indagine commissionata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP), pubblicata a ottobre 2021, raccoglie evidenze scientifiche sul tema: i 5.621 psicologi presi in esame parlando di un aumento del 31% dei pazienti in terapia con meno di 18 anni. Tra loro 1 su 2 vive un disagio psicologico e 1 su 10 manifesta un disturbo, come afferma il Presidente del CNOP David Lazzari.

Modelli sani e aspirazioni cercansi

Ma l’emergenza vera è adesso, nel long covid sociale di ragazzi che si tagliano o si tappano in casa. Vedere adulti in preda al panico è, in assoluto, ciò che sgomenta e azzera le forze dei bambini e dei giovani negli anni della crescita. Anni in cui guardando noi, i grandi, dovrebbero trovare modelli da imitare e seguire, anche quando, da adolescenti, ci mettono necessariamente e profondamente in discussione. La crisi identitaria dell’adolescenza si supera quando troviamo qualcosa cui tendere, un ideale che ci fa guardare alle stelle, ai desideri, agli aneliti proprio quando le istanze del corpo che cambia e dell’anima che si “insubbuglia” fanno perdere ogni orientamento.

Quali ideali possono perseguire, i nostri ragazzi? Quale spazio di trasformazione abbiamo lasciato loro? Quali valori stiamo depositando nella geologia di questo presente che è il loro domani?

Vedere il pianeta assetato e leggere di politiche energetiche scellerate, assistere alla guerra vicina e ai migranti che annegano a pochi metri dalle nostre coste, sapere che il profitto è ancora il valore dominante ed essere privati dell’unica cosa che veramente salva, ovvero le relazioni umane vere e il reale contatto con l’altro, cosa può determinare nei nostri giovani? Leggete Iperconnessi (Einaudi, 2018) della ricercatrice Jean Twenge sulla “iGen” e vi farete un’idea chiara del panorama psichicamente regressivo e della forma mentis della prima generazione che ha udito più parole pronunciate da un calcolatore che da un essere umano.

Più pedagogia (per prevenire i Centri di sostegno)

Al Gemelli di Roma, dove già da anni è avviato un centro di sostegno e recupero per l’uso problematico di internet, hanno appena inaugurato un Centro per le dipendenze che contempla vecchi e nuovi abissi della mente e dell’anima: alcol, naturalmente (i dati parlano di 8,6 milioni di casi a partire dagli 11 anni, con un picco di binge drinkers in età adolescenziale), ma anche la nomofobia (‘no mobile fobia, cioè la paura di rimanere senza cellulare), la dipendenza dall’esercizio fisico e dallo shopping, le sostanze vecchie e nuove, tra queste la pink cocaine, il gioco d’azzardo, il sesso in rete.

Che risposta possiamo dare, prima di finire ai centri di sostegno? E’ ovvio che non si tratta più di qualche caso isolato di fragilità, ma di una disgregazione socio-culturale irrefrenabile.

Ed è la scuola, l’educazione, la pedagogia che dovrebbero impedire la frana, arginare e contenere, indicare una strada. Riempire di senso quelle migliaia di ore che i bambini e i ragazzi passano con noi, gli educatori, perché li aiutiamo a capire chi sono, con quali misteriosi talenti sono venuti a mondo, qual è la stella che brilla per ciascuno. Invece, tanto per dirne una, oltre ai liceali delle scuole pubbliche di zona, hanno partecipato qualche giorno fa anche i bambini di asilo e primaria all’open day dello scalo NATO di Trapani Birgi.

 

Franco Lorenzoni
Il maestro di scuola primaria Franco Lorenzoni

 

E’ vero: moltissimi docenti e movimenti educativi lavorano con dedizione ed entusiasmo. Molti sono famosi, da Alessandro D’Avenia a Franco Lorenzoni e Daniela Lucangeli, e unanime risuona il loro grido di allarme: basta alla scuola che ingozza, alla scuola che perde tempo in burocrazia e inutili riforme, basta alla scuola che valuta e discrimina, che alleva competizione mentre omologa menti e cuori. Anche noi tutti dovremmo, forse, come gli studenti del Berchet, rinunciare. Dire basta a questa scuola. Per crearne altra. Dal basso, dal territorio, dalla conoscenza dell’essere umano. Imparando dai grandi ribelli del passato, come racconta Lorenzoni nel suo ultimo libro, Educare controvento (Sellerio, 2023). Non è mai troppo tardi, diceva un grandissimo ribelle. Diamogli retta.

Mielizia

Saperenetwork è...

Stefania Chinzari
Stefania Chinzari è pedagogista clinica a indirizzo antroposofico. Si occupa di pedagogia dal 2000, dopo che la nascita dei suoi due figli ha messo in crisi molte certezze professionali e educative. Lavora a Roma con l’associazione Semi di Futuro per creare luoghi in cui ogni individuo, bambino, adolescente o adulto, possa trovare l’ambiente adatto a far “fiorire” i propri talenti. Svolge attività di formazione sui temi delle difficoltà evolutive e di apprendimento, della genitorialità consapevole, dell’eco-pedagogia e dell’autoeducazione.
Giornalista professionista e scrittrice dal 1992, il suo ultimo libro è "Le mani in movimento" (2019) sulla necessità di risvegliarci alle nostre mani, elemento cardine della nostra evoluzione e strumento educativo incredibilmente efficace.
E’ vice-presidente di Direttamente ets che sostiene la scuola Hands of Love di Kariobangi a Nairobi per bambini provenienti da gravi situazioni di disagio sociale ed economico.
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