«Il vuoto non è il nulla ma uno stato fisico che gorgoglia» scrive la drammaturga Linda Dalisi nelle sue note. Il vuoto di chi perde la memoria e l’identità, di cosa gorgoglia? Che accade nella mente di chi scambia una pantofola per una cara amica o sente «il blu loquace»? Quali ricordi ribollono, impigliandosi testardi sempre contro lo stesso masso, in un mulinello prigioniero della corrente che non scorre mai verso il mare? È al vuoto di coloro che soffrono di malattie neurovegetative che guarda Fabiana Iacozzilli con Il grande vuoto, capitolo conclusivo della sua “Trilogia del vento”, ora in tournée, presentato in prima nazionale in conclusione del Roma Europa Festival al Teatro Vascello insieme agli altri due spettacoli del progetto.
Un trittico sulle età
Prodotto da Cranpi con la Fabbrica dell’Attore, La Corte ospitale e il REF, lo spettacolo conclude un trittico che si è costituito tale strada facendo, con La classe, “docupuppets” per marionette e uomini che parla dell’infanzia e dei (cattivi) maestri, strizzando l’occhio alla Classe morte di Kantor e pescando nei ricordi della regista. E seguito da Una cosa enorme, affondo in una maternità iperrealista e mostruosa, di cui la protagonista cade vittima al pari di tante costrizioni culturali. Come nel celebre dipinto di Klimt, ecco allora che nelle tre età della donna raccontate dalla premiata regista si affaccia ora la vecchiaia, affrontata con lo sguardo sghembo e doloroso di una famiglia ferita e di una donna «che non c’è più».
Dopo la solitudine del bambino e quella della maternità, mentre è alle prese con il disagio di un progetto che parla di donne con disturbi alimentari, la regista de Il grande vuoto ci trasporta con levità infingarda nell’isolamento di una anziana attrice che una volta, a San Pietroburgo, recitò la parte del Re Lear in una produzione di grande successo anche personale. Uno spunto che attinge anche alla biografia dell’intensa Giusy Merli, qui protagonista coraggiosa e autorevole, portata al successo dalla Grande bellezza di Sorrentino, che una decina d’anni fa ha rivestito i panni del vecchio sovrano shakespeariano in un riuscito spetta colo del Teatro Popolare d’Arte di Pedullà.
La palude dell’oblio
Nell’ampia cucina della sua casa, con i due figli ormai adulti che apparecchiano la tavola, stentiamo quasi a riconoscere nella vecchia scarmigliata la donna che, in apertura di spettacolo, avevamo visto battibeccare civettuola e autoritaria con il marito (Ermanno De Biagi), in un ritratto di complicità affettuosa che intorno alla vecchia utilitaria di famiglia che non vuole partire, imbastiva ricordi e ripicche di un passato solido e solidale. Ma adesso l’uomo è morto e lei, invece, scivola ogni giorno di più nella palude di chi non ricorda.
Co-stretti nell’assenza fisica del padre e in quella mentale della madre, i due figli s’impigliano nella rete che cattura quanti arrivano a confrontarsi con una madre che “scompare”.
Incredulità, rabbia, impazienza si alternano a buoni propositi e domande senza risposta, badanti premurose (Mona Abokhatwa al suo debutto in scena) e telecamere che registrano ore di silenzi, intimità violata, monologhi inservibili. Nulla è rimasto della donna che li ha messi al mondo, cullati e cresciuti se non un unico scampolo di memoria ossessivamente reiterato, quel monologo di Lear del terzo atto, quello della tempesta e della vecchiaia, del sovrano che nel furore degli elementi si scaglia contro l’infermità e le figlie, il tuono e l’ingratitudine.
Entrare nel vuoto per ritrovarsi
Ai due figli, affidati alla fragilità nervosa di Francesca Farcomeni e alla complicità teneramente infantile di Piero Lanzellotti, non resta che trovare insieme una catarsi, per non affondare nell’incomprensione e nelle accuse reciproche. E’ qui che la drammaturgia del Grande vuoto propone uno scarto salvifico, frutto, ancora una volta, di esperienze personali, della fruttuosa collaborazione con Dalisi, delle risonanze con i romanzi di Ernaux e Samonà, senza dimenticare I cura cari (Einaudi, 2022) di Marco Annicchiarico e dei contatti della regista con centri e malati di Alzheimer. Così, mentre la stanza si affolla di oggetti, ricordi, costumi, giocattoli e cianfrusaglie inversamente proporzionali all’abissale vuoto della mente della donna, è lì che i due figli decidono di incontrarla, tra i marosi della tempesta, nell’ira sconvolta di Lear:
in una pazzia condivisa che diventa ricucitura degli affetti, gesto magico e risanante, accettazione di un dolore che diviene sopportabile solo quando lo si porta insieme.
«Tante le domande che ci hanno spinte a sprofondare, ad addentrarci in questa ricerca su cosa rimane di noi e se continua ad esistere qualcosa di quello che siamo state mentre ci approssimiamo alla fine della vita – ha detto Iacozzilli – Ma una su tutte è forse la più adatta a questo lavoro ed è quella letta in un fumetto dell’autrice Giulia Scotti: “il punto è trasformare il dolore in bellezza. Ci riusciremo ancora?”».
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