L’allarme per il cosiddetto “buco nell’ ozono” è emerso verso la metà degli anni Settanta, quando il chimico Frank Sherwood Rowland rivelò su “Nature” che i clorofluorocarburi (Cfc) stavano intaccando questo prezioso gas stratosferico che protegge la vita sulla Terra dai raggi ultravioletti. Inizialmente “Sherry”, come lo chiamavano gli amici, venne deriso dalla comunità scientifica e osteggiato dalle industrie che utilizzavano questo composto, principalmente come propellente nelle bombolette spray o come agente refrigerante (il Freon) nei frigoriferi.
Le successive misurazioni ai poli però confermarono che la tendenza era inequivocabile e che si dovesse correre ai ripari: fu la strada che portò, nel 1987, a mettere al bando i Cfc attraverso il Protocollo di Montreal sostituendoli con altre sostanze. E lui nel 1995 venne insignito, insieme ai colleghi Mario Molina del Massachusetts Institute of Technology e Paul Crutzen dell’Istituto Max Planck di Magonza, con il Nobel per gli studi effettuati sulla chimica dell’atmosfera.
Ma com’è la situazione ad oggi di questo prezioso scudo che circonda il Pianeta? Veramente possiamo dire che il problema del suo assottigliamento, in particolare sopra l’Antartide, è stato risolto?
Il grafico qui sopra dimostra che le oscillazioni sono ancora molte, tanto che a settembre, in corrispondenza con la primavera australe, le immagini del satellite Sentinel 5P dimostravano che il buco aveva superato l’estensione dell’Antartide diventando più grande del 75% rispetto alle prime misure rilevate nel 1979. E allora come stanno le cose?
Lo abbiamo chiesto ad Antonello Pasini, climatologo del Cnr, docente di Fisica del clima all’Università Roma Tre nonché autore di numerosi saggi scientifici e di preziose pubblicazioni divulgative come il recente “L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili” (Codice edizioni, 2020).
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