Non è solo un film documentario. Kiss the ground è molto di più: un’idea, un ideale, una community, una “call for action”, un progetto educativo e comunicativo, una possibilità reale e realistica di invertire la rotta e provare a salvare il pianeta. Con una ricetta così semplice che ha dell’incredibile. «Il messaggio è semplice, è farlo passare che è difficile», dice infatti Ray Archuleta, agronomo specializzato nello studio del suolo del Natural Resources Conservation Service, uno dei volti ricorrenti del film dei coniugi Joshua e Rebecca Tickell, insieme a Woody Harrelson, voce narrante, Patricia Arquette, Gisele Bundchen e altri.
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La cura del suolo che cura il clima
Perché bisogna cambiare mentalità, abitudini, prospettiva. Entrare nell’ottica che siamo tutti sulla stessa barca e ci salveremo o affonderemo tutti insieme, che mangiare e coltivare consapevolmente deve diventare una scelta quotidiana e individuale tanto quanto globali devono essere le azioni politiche ed economiche. Ce lo ricorda anche il film, che alla Cop 21 a Parigi, nel 2015, solo India, Usa e Cina su 196 paesi rifiutarono di firmare il trattato per una nuova agricoltura, che cambi idea sui pesticidi e gli Ogm. Governati dagli interessi delle multinazionali e incuranti dell’evidenza: solo la cura del suolo curerà il clima.
Kiss the ground e le presidenziali Usa
Kiss the ground è dal 22 settembre disponibile su Netflix e dal 22 ottobre in streaming, proprio alla vigilia delle elezioni presidenziali; chissà se le immagini accattivanti, le testimonianze appassionate e le prove “prima e dopo la cura” riprese in giro per il mondo, dal Nord Dakota all’altopiano cinese di Loess all’Africa non riescano a parlare alla pancia dell’elettorato trumpiano.
Sono fondamentalmente loro, i grandi coltivatori dell’agricoltura intensiva, sovvenzionata, glifosata e mortifera (e dei grandi potentati economici che la impongono) i primi destinatari di questo film, ma a tutti noi fa bene vederlo. Perché in 104 minuti densi e intensi ci porta dalla disperazione della paralisi ambientale alla voglia di mettersi in gioco, ognuno per quello che può.
La soluzione nella terra
La soluzione? Sotto i nostri piedi: la terra. La terra che aratura massiccia, monocolture, coltura a file separate e pesticidi hanno ridotto in polvere e che potrebbe invece tornare lussureggiante e fertile a partire proprio dal carbonio, dall’anidride carbonica e dalle mucche. Sì, le mucche, perché come dice il rancher Gabe Brown: «l problema non sono le vacche, il problema è come le allevi». E se invece di tenerle nei recinti e coltivare ettari e ettari solo per sfamarle (il 70% delle coltivazioni Usa di mais, soia e grano copre il 99% del fabbisogno degli allevamenti intensivi) le lasciassimo pascolare nel terreno, controllando e gestendo la rotazione, potremmo fermare il conto alla rovescia e far partire l’orologio della rigenerazione.
Settant’anni di anidride carbonica
Erba e piante, infatti, assorbono e trattengono nei peli radicali e nelle radici quantità impressionanti di carbonio che 70 anni di dissodamento selvaggio hanno disperso nell’atmosfera sotto forma di anidride carbonica fino al micidiale effetto serra che intrappola il nostro futuro. Eliminando l’aratura profonda e seminando in superficie, l’agricoltura rigenerativa permette di ricatturare e conservare nelle piante, nei microrganismi del suolo, nelle micorrize e nel terreno stesso enormi quantità di carbonio.
Un’altra agricoltura
E quando Allan Savory, ecologista e allevatore olistico in Zimbabwe, ci mostra i suoi 16 lussureggianti ettari dopo 9 anni di pascolo libero, siamo increduli come l’attore e attivista Ian Sommerhalder che fa da testimonial al film. «Un terzo della superficie fertile della terra è perso – spiega Savory – 40milioni di persone rischiano di restare senza terra e già nel 2050 se continuiamo così avremo un miliardo di rifugiati per colpa della deserto che avanza. Tra 60 anni, dicono studi delle Nazioni Unite, il terreno che oggi è ancora fertile non lo sarà più, ma si può utilizzare il bestiame da pascolo sui due terzi del mondo che è a un passo dalla desertificazione per invertire questo processo ad un costo estremamente basso». Allora, se si può, siamo arrivati al momento del “si deve”.