Lo scenario della desertificazione

La città è un deserto

Oggi, 17 giugno, è la Giornata Mondiale contro la desertificazione e la siccità. Un fenomeno non più limitato ad alcune aree del pianeta; ormai è arrivato dappertutto, invadendo gli spazi urbani. Complice il consumo di suolo e la cattiva gestione del verde

17 Giugno, 2020
3 minuti di lettura

Quando parliamo di desertificazione pensiamo, di solito, alle zone dell’Africa e dell’Asia da tempo colpite da questo fenomeno, o alla foresta amazzonica rasa al suolo per far posto ad allevamenti intensivi che rapidamente impoveriscono il suolo.

 

Guarda il video del CNR sulla desertificazione nel mondo

 

L’avanzata del “deserto” urbano

In realtà la desertificazione, complice il cambiamento climatico, ha da tempo varcato i confini di stati e continenti ed è presente ovunque sul nostro pianeta. Anche in Italia le zone desertificate o a rischio si sono estese e già nel 2015 il CNR stimava che il 21% del territorio nazionale fosse a rischio desertificazione, con punte preoccupanti nel centro-sud. Il deserto avanza, non solo come effetto del degrado di terreni abbandonati o danneggiati da un’agricoltura insostenibile, ma anche in maniera più sottile e meno percepita, come problema legato alla gestione del suolo e alla governance dei territori urbani.

Consumo di suolo, il nemico implacabile

Secondo il rapporto Ecosistema urbano 2019 di Legambiente il consumo di suolo è uno dei più gravi problemi che affliggono le città capoluogo. Come si legge nel dossier:

«Le città capoluogo hanno un ruolo rilevante nel fenomeno del consumo di suolo: esse pesano per il 6% sul territorio italiano, ma per il 14% sulla misura del suolo consumato. Rispetto al resto del territorio, dove una maggior quota di suolo è dedicata ad infrastrutture, nei capoluoghi si concentra la funzione abitativa: in essi risiede stabilmente il 30% della popolazione italiana. Le politiche per fermare l’espansione edilizia, oltre a contrastare il degrado di paesaggio, risorse e biodiversità, implicano la ristrutturazione ambientale e sociale dell’organismo cittadino». 

Torino ha il 65% di superficie urbanizzata sul totale del territorio municipale, Napoli il 62,5, Milano il 57,3. Già questi numeri ci fanno riflettere su quanto poco vitali e vivibili siano i nostri ecosistemi urbani.

La mala gestione del verde urbano

Ma ciò che maggiormente evidenzia la desertificazione delle nostre città è la quantità, e soprattutto la qualità del verde urbano. Le spending review degli ultimi decenni hanno sottratto fondi alla cura del verde, che da azione di routine è diventata intervento sporadico, spesso emergenziale, o abbellimento senza criterio fatto per sfruttare qualche finanziamento: «Dagli ultimi dati ISTAT disponibili (anno 2015) risulta che, nei 116 capoluoghi di provincia italiani, il Piano del verde è presente in meno di una città su 10, il regolamento del verde nel 44,8% dei casi, e il censimento del verde è realizzato da 3 città su 4. Dove una visione strategica in materia di verde urbano manca, si procede per interventi di “somma urgenza” per la messa in sicurezza dei siti, o impedendo l’accesso alle aree con piante pericolose, o addirittura eliminandole».

 

 

Così si legge nelle  Linee guida per la gestione del verde urbano e prime indicazioni per una pianificazione sostenibile, 2017, del Ministero dell’Ambiente

I danni delle potature violente

Molti giardini urbani, piantati negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sono invecchiati male, fra lunghi periodi di incuria alternati a potature violente che hanno finito per indebolire le piante. Come osserva in un intervento sulla rivista Arbor del 2013, poi ripreso da Georgofili.info , Francesco Ferrini, Ordinario di Arboricoltura e Presidente della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze:

«Il tronco capitozzato viene, infatti, lasciato dal taglio senza difese e così i tessuti[…] iniziano a morire dalla superficie del taglio stesso verso l’interno. La corteccia, inoltre, viene improvvisamente esposta ai raggi solari, con un eccessivo riscaldamento dei vasi floematici più superficiali, che sono danneggiati […] questa struttura morfo-funzionale modificata, a causa della ridotta massa fogliare specifica, è molto suscettibile a vari tipi di stress, biotici e abiotici. In un certo senso la potatura fa regredire il ramo potato a un comportamento più pionieristico, che però risulta meno tollerante agli stress ambientali». (F. Ferrini, “La capitozzatura, brutta e dannosa”).

 

Guarda l’intervento di Francesco Ferrini sulla salute delle piante

Curare, prima di piantare

La capitozzatura, oltre a privarci per un certo periodo della fotosintesi, costringe la pianta a ricorrere alle energie di riserva stoccate nel tronco e nelle radici, indebolendola e rendendola più vulnerabile agli eventi atmosferici. A questo si aggiungono spesso i danni recati alle radici ogni volta che si scava per far passare cavi, tubazioni e altro, e ancora le infestazioni importate a causa della cattiva globalizzazione, contro le quali nei nostri fragili ecosistemi urbani non ci sono antagonisti. Abbiamo così una percentuale crescente di alberi a rischio caduta, che vengono rimossi con troppa facilità, senza provare a curarli, e sostituiti con l’illusione che una pianta giovane possa fare lo stesso lavoro di un grande albero, senza tener conto né della differenza di superficie fotosintetizzante, né del piccolo ecosistema che vive sui patriarchi verdi (uccelli, insetti, roditori, licheni, muschi…) e che subisce così un tracollo spesso irreversibilePiantare nuovi alberi perciò è necessario ma non sufficiente: se manca la cura delle piante esistenti e la salvaguardia del suolo dall’aggressione del cemento e dei vari inquinamenti, le nostre città si trasformeranno sempre più in aridi deserti.

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