C’è un padre-padrone, sguaiato e incontenibile, sagace, sciamanico. Ci sono tre figli mantenuti e rinnegati, talentuosi, feriti. C’è la Napoli dei primi decenni del secolo scorso, brulicante di vita, suoni e colori, scenografia inesauribile. E c’è il Teatro che quel padre e quei figli hanno distillato dalla drammaticità viva della loro terra e dall’elica dell’ereditarietà.
Il teatro che brulica tra i vicoli e che Eduardo Scarpetta prima e Eduardo De Filippo poi hanno portato sulle scene, ogni volta rivoluzionando le maschere e i generi, nell’abbraccio assoluto del pubblico.
Ma non è sempre stato così. Prima che Eduardo De Filippo diventasse semplicemente Eduardo, autore, attore, poeta e regista osannato; che Peppino l’imprevedibile trovasse la notorietà al cinema e in tv e Titina esprimesse tutti i registri della sua arte nei ruoli che l’hanno resa celebre, c’è stato il lungo, doloroso percorso dell’emancipazione e della gavetta, delle liti fraterne e dei conflitti edipici.
Questo racconta, nell’affresco ricchissimo di un’epoca e di una dinastia, “I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini, presentato alla Festa del Cinema di Roma, transitato nei cinema per soli tre giorni e atteso il 29 dicembre su Raiuno (coproduce Raicinema con Pepito e Nuovo Teatro Production). Così come “Qui rido io” di Mario Martone, visto a Venezia e poi uscito nelle sale con ottimo successo, racconta (anche) del trionfo e della caduta di Scarpetta padre alle prese con l’ostico processo seguito alla parodia della “Figlia di Iorio” di D’Annunzio che gli inferse un’inguaribile “ferita d’amore” dal suo pubblico.
Due omaggi dedicati quasi in contemporanea
Singolare che due film, pur con gestazioni assai diverse, escano così a ridosso l’uno dell’altro, divenendo, questo di Rubini, il sequel naturale del capolavoro di Martone, nonostante il regista pugliese covasse da oltre sette anni l’idea di un’opera sui De Filippo narrata come quella “di una rockband”.
Insieme, con le dovute differenze di stile e di messa a fuoco, aprono il sipario su una storia universale come le grandi tragedie classiche, condotta da protagonisti ricchissimi di umanità e sfaccettature. Sullo sfondo, una coralità di personaggi, ambienti e contesti storici che nel loro intrecciarsi non solo presentano i perfetti ingredienti della mimesi, ma sono la pasta madre dell’immaginario culturale, sociale e linguistico del nostro Novecento.
Forse avevamo bisogno dell’agonizzante, semi-pandemico presente per poterci rispecchiare in questa nostrana Dinasty straboccante di carnalità, linguaggi, segreti, finzioni, impliciti decreti, di potere assoluto mascherato di bonomia e paternalismo.
Gavetta e conflitti prima della gloria
Affidati a un cast di ottimi attori, capitanati dai tre giovani esordienti Mario Autore, Domenico Pinelli e Anna Ferraioli Ravel nei panni dei protagonisti con Susy Del Giudice (Luisa) e Biagio Izzo (Scarpetta figlio), I fratelli De Filippo raccontano infatti dello scontro con il padre mito, della ricerca identitaria, della fatica delle relazioni e della fratellanza, della necessità di dare ascolto alla voce creativa che irrompe, del riscatto sociale di chi aspira, nel palazzo padronale dove si ride e si mangia a volontà, “a prendere non solo le scale ma l’ascensore”.
Racconta della forza della parola e di una lingua, quella partenopea, che riesce a cogliere le pieghe della commedia umana; indaga il crinale appuntito tra arte e finzione, appartenenza e singolarità, legalità e legittimità, autorizzate dalla pregnanza dello status, del sangue, del nome.
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Il nome che Scarpetta negherà sempre ai figli illegittimi, avuti da Luisa De Filippo, nipote della moglie, ennesima famiglia di una vitalità creatrice inesauribile. Invece saranno proprio loro ad aver ereditato il genio del teatro calcato sin da piccoli, nella gavetta che dal Peppeniello di “Miseria e nobiltà” avrebbe potuto portare al trionfo di Felice Sciosciammocca.
Un teatro “rivoluzionato”
«Io non ti ho dato il nome, ma tu ti sei rubato l’arte» confessa a malincuore Scarpetta-Giannini al giovane Eduardo, mentre il figlio legittimato Vincenzo ascolta di nascosto, a sua volta negato. E’ uno Scarpetta tiranno, appesantito e stanco che Giannini interpreta con autorevole maestria, regalandoci un patriarca ben diverso da quello guappo e seduttivo di Servillo.
Ma Eduardo vuole altro: un teatro nuovo, preso dalla vita, un teatro che dalla lezione di Pirandello arriverà al Neorealismo e oltre. Dopo ingaggi e fallimenti, fame nera e le uova marce con cui in Sicilia hanno accolto le prime repliche di “Sik Sik l’artefice magico”, la prima tappa, nel 1931, fu la creazione della Compagnia del Teatro Umoristico De Filippo.
Con essa i fratelli hanno viaggiato per l’Italia, rivoluzionando il gusto, la tradizione, la società, dalla scena culto del presepe di casa Cupiello all’ultimo litigio.
I 142 minuti del film di Rubini (ce la farà il pubblico televisivo, abituato a serie da tre quarti d’ora?), un lungo flashback raccontato con devozione ed efficacia, attenzione alla ricostruzione storica e all’abbondanza di materiali di una storia che non si può non amare, si fermano qui. Il regista sta già pensando ad un nuovo capitolo che seguirà le vicissitudini dei De Filippo dal 1944 ai nostri giorni. Lo aspettiamo con interesse.