C’è oggi, a mio parere, una questione culturale enorme, regolarmente ignorata o piuttosto, direbbe un freudiano, rimossa. La pongo qui solo per titoli e citazioni e un paio di domande finali. E mi piacerebbe davvero che qualcuno intervenisse, mi aiutasse a capire, se le mie sono preoccupazioni cervellotiche o se davvero qui, Houston, abbiamo un problema.
Anni 90
I computer sono diventati multimediali e incomincia a svilupparsi un’editoria digitale, il cui supporto principale è il Cd Rom. Gli ipertesti multimediali sono un medium appena nato, e ovviamente si procede per tentativi, non solo le grandi case editrici, ma anche gente comune, dato che il software per farli è tecnicamente accessibile anche a chi non si intende di programmazione e il costo dei masterizzatori cala in picchiata. Dopo il capostipite Amiga Vision – sepolto dalla memoria in Rete, lo si trova solo su Ebay, ma era il punto di forza del primo computer esplicitamente commercializzato come multimediale, l’Amiga 3000 – escono programmi per tutte le piattaforme e tutte le tasche. A memoria e a caso: Tool Book, Illuminatus, NeoBook, Scala Multimedia e Infochannel (che in quegli anni chi scrive ha fatto usare anche ai bambini della scuola dell’infanzia), fino al più evoluto e professionale di tutti, Macromedia Director.
Anni 2000
Abbiamo smesso di produrre ipertesti multimediali, tanto il pubblico non sa cosa farci (nella mia esperienza li capivano solo i bambini) e tutto si concentra sui siti web.
A parte i “portali” istituzionali spesso orribili e irrazionali, in molti c’è studio, ricerca, anche se il medium non si presta ad opere ponderose e importanti, perché per lo più ci si accede navigando di fretta. Un’alternativa importante potrebbero essere i blog, un tipo di pubblicazione facile e di impatto, per lo più gratis, attraverso cui tutti possiamo “essere giornalisti”.
Anni 2010
Un sito web ce l’hanno ormai tutti quelli che fanno qualcosa, i blog esistono ancora, ma gran parte del traffico si sposta sui social network, dentro pagine, gruppi, profili definiti da chi gestisce le piattaforme, in cui gli utenti intervengono con brevi frasi e commenti, fotografie e video, e quando qualcuno prova a fare un discorso un po’ più lungo e articolato, giustamente nessuno lo legge, perché in quel contesto è davvero scomodo e faticoso. Poi, sui telefonini divenuti “smart”, invece di usare un solo programma (il browser), per raggiungere all’occorrenza qualsiasi fornitore di servizi, la gente installa decine di app, una per ogni servizio, così può ordinare una pizza con un clic, invece che due. Tende a perdersi il concetto stesso di Rete.
Comunicazione consapevole o fenomeni di consumo…
Tralascio le discussioni infinite e per me poco comprensibili su libri digitali o di carta, centrate per lo più sul come si legge su supporti diversi. Così come l’impatto della tecnologia su informazione, musica, film, televisione, per il grande pubblico limitato a modalità di consumo. Solo un accenno a certi “nuovi” utilizzi del video, streaming, dirette, tutorial su qualsiasi cosa, spesso più un pittoresco fenomeno di costume che una forma di comunicazione consapevole.
Dov’è finita l’editoria digitale?
Vorrei capire e domando, se qualcuno è più informato: qual è lo stato dell’editoria digitale, quella vera?
Cioè, dopo il multimediale per tentativi degli anni ‘90, quali autori ed editori oggi, in forma possibilmente più matura, producono insiemi di testo, figure, suoni, video, audio in qualcosa che non siano solo lavori sempre in corso come le pagine web, o opere effimere come le installazioni, ma prodotti finiti, distribuibili? E, data la crisi annosa dei dischi ottici, su quale supporto materiale, per chi, oltre la labilità e gli “spezzatini” della Rete, questi prodotti volesse vederli e toccarli nella propria libreria, conservarli nel tempo?