Non si fermano le condanne in Iran per il coinvolgimento nelle proteste incominciate dopo la morte della giovane curda Masha Amini. Il procuratore di Tehran, Ali Alqasí Mehr, ha annunciato nei giorni scorsi che almeno 400 rivoltosi saranno arrestati, con pene che vanno da due a dieci anni di reclusione.
Dal 16 settembre, durante le rivolte contro il regime, per la democrazia e la libertà, sono stati uccisi dalle forze di sicurezza iraniane almeno 44 minorenni.
Per Amnesty International, 34 dei 44 giovani sono stati uccisi da proiettili mirati al cuore, al capo e ad altri organi vitali. La maggior parte apparteneva alle minoranze oppresse baluci e curde. Il regime iraniano si sta rivelando sempre più mortifero: dopo le esecuzioni di Mohsen Shekari e Majid Reza Rahnavard – due giovani 23enni, giustiziati rispettivamente l’8 e il 12 dicembre, con l’accusa di “inimicizia contro Dio”- altre undici persone attendono l’impiccagione. Nemmeno le sanzioni approvate dal Consiglio dell’Unione europea per le repressioni e per il ruolo di assistenza alla Russia nella guerra in Ucraina sembrano porre fine alle terribili violenze e torture. Nemmeno l’espulsione dell’Iran dalla Commissione Onu sulla condizione delle donne.
Sull’azione dell’Onu si è pronunciato lo scrittore iraniano dissidente Esmail Mohades, che ha ricordato come il regime fin dal suo insediamento è stato improntato sulla misoginia, non solo per questioni ideologiche, ma perché colpire le donne significa soprattutto reprimere la società. Le donne in altre parole hanno la forza di imprimere un cambiamento. Lo ha confermato la mobilitazione che si è estesa in tutto il territorio iraniano, che ha trovato il supporto della classe media, sempre più povera, e di una intera generazione che non accetta più l’autorità e sfida la morte: dalle città alle campagne, dalle università alle fabbriche, fino a culminare con la proclamazione di tre giorni di sciopero generale dal 5 al 7 dicembre, con una partecipazione che in alcune zone ha sfiorato il 100 per cento.
E non è un caso che tra i primi provvedimento del governo dopo la rivoluzione islamica del 1979, ci fu l’obbligo per le donne di indossare il velo. Per queste ragioni bruciare l’hijab non è un semplice gesto di protesta. Significa dire no alla repressione religiosa e politica. E quindi a un modello culturale ed economico. È il bisogno di scegliere liberamente la propria vita; è la richiesta di pari dignità sociale: “Jin, jiyan, azadî” (donna, vita, libertà). In questo nuovo scenario, dove si respira ogni giorno aria di rivoluzione, secondo lo scrittore iraniano ci sono delle responsabilità che non coinvolgono soltanto il potere di Khomeyni: «la vera domanda è cosa ci faccia l’Iran in quella Commissione. I governi occidentali devono rispondere».
Proprio dal mondo occidentale dovrebbe arrivare un segnale, spiega Mohades: «Il minimo che i Paesi occidentali possano fare è richiamare i propri ambasciatori, convocare i rispettivi ambasciatori iraniani, fino a chiudere le ambasciate».
E sulla uccisione di Majid Reza Rahnavard ha dichiarato: «L’hanno impiccato in pubblico malgrado ieri sera la madre abbia incontrato il figlio e abbia ricevuto rassicurazioni. È un segnale della debolezza del regime, che non potendo rispondere alle proteste sul piano culturale, economico e politico, non ha altro strumento che la repressione. Purtroppo dobbiamo attenderci un’ondata di esecuzioni».