Non solo vaccini. A che punto siamo con le terapie anti-Covid?

Non solo vaccini. A che punto siamo con le terapie anti-Covid?

La corsa all’immunità di gregge non è la sola sfida. Merita attenzione anche quella  per un farmaco efficace contro la Covid-19. L’incerta natura dei virus e una buona dose di negligenza per il momento hanno reso le cose più complicate del previsto

È trascorso ormai più di un anno dall’inizio della pandemia da Covid-19, ciononostante mancano ancora efficaci terapie farmacologiche mirate a bloccare la replicazione dell’agente scatenante la patologia: il virus Sars-Cov-2. In fatto di prevenzione, la migliore arma di cui disponiamo sono i vaccini. Che siano basati su subunità proteica, RNA o vettori virali, solo questi, infatti, potranno debellare, in via definitiva o meno, il nuovo coronavirus. Tuttavia, mentre la corsa all’immunità di gregge imperversa, curare la malattia, specie nei casi sintomatici più gravi, si è dimostrata una sfida complessa. Ma non del tutto inaspettata. «Altri tipi di patogeni, quali batteri, funghi e parassiti – scrive Elie Dolgin, genetista e giornalista scientifico, in un articolo pubblicato su Nature – sono più facili da contrastare perché le proprietà delle loro cellule offrono molti bersagli ai farmaci». I virus, dal canto loro, sono dei nemici decisamente più insidiosi.

 

Elie Dolgin, genetista e giornalista scientifico

 

Gli antivirali e la loro efficacia

Gli agenti virali, è bene comunque precisarlo, non sono sempre dannosi. In alcuni casi, si ritiene che siano perfino uno dei principali motori dell’evoluzione. Uno studio del 2015, ad esempio, ha dimostrato il ruolo di remote infezioni da retrovirus nello sviluppo della placenta umana. Ci sono però agenti virali che è necessario combattere, e che hanno dato filo da torcere agli scienziati di tutto il mondo. Il loro materiale genetico estremamente compatto e la mancanza di strutture cellulari offrono, infatti, pochissimi bersagli all’attività dei farmaci. Elevati tassi di replicazione e una naturale tendenza a mutare geneticamente, non fanno altro che peggiorare le cose. Per questo motivo, mentre gli antibiotici – efficaci solo contro i batteri – hanno spesso un ampio spettro di azione, gli antivirali agiscono solo su un gruppo di virus altamente specifico. In altre parole, farmaci potenzialmente promettenti contro il virus dell’AIDS, ad esempio, sicuramente non potranno funzionare contro il Sars-Cov-2. 

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I casi del Remdesivir e del Molnupiravir

Qualcosa, comunque, si sta muovendo. Il primo candidato è stato il farmaco Remdesivir, utilizzato nel trattamento del virus dell’ebola. Con quest’ultimo – non sarà di certo un caso – Sars-Cov-2 condivide uno specifico meccanismo d’infezione. Studi iniziali avevano dimostrato che il farmaco accelerava la guarigione di pazienti ospedalizzati per Covid-19, ma altri studi clinici, tuttavia, non sono riusciti a confermarne il reale beneficio. C’è da dire poi che si tratta di un farmaco costoso, difficile da produrre e da somministrare (via endovenosa in ospedale), condizioni che non lo rendono compatibile con la necessità di fronteggiare una pandemia. L’attenzione si è quindi spostata sul Molnupiravir, un farmaco che sembra ridurre la durata della fase infettiva nei pazienti Covid-sintomatici. Questo, di più agevole somministrazione (via orale) e produzione, impedisce la corretta replicazione del virus ed è, pertanto, in fase di sperimentazione clinica avanzata. 

 

 

Enzimi e strategie sperimentali

Data l’elevata plasticità dei virus, un’altra strategia sperimentale potrebbe dare risultati ancor più concreti. Stiamo parlando della possibilità di sviluppare farmaci che interferiscano con le vie metaboliche dell’organismo infettato sfruttate dai virus per replicarsi. Il virologo molecolare Jeffrey Glenn, ad esempio, sta sperimentando un farmaco per bloccare un enzima implicato nella regolazione dei grassi. Poiché usato da molti virus per penetrare nelle cellule, la sua inibizione toglierebbe al patogeno l’accesso a una funzione umana indispensabile però alla sua replicazione. Sulla stessa linea, un’altra promettente scoperta è stata fatta dentro i nostri confini. Lo studio coordinato da Giuseppe Novelli dell’Università di Tor Vergata e da Pier Paolo Pandolfi dell’Università di Torino, entrambi affiliati anche con l’Università del Nevada, ha individuato un farmaco in grado di bloccare il virus dentro le cellule. In particolare, è stata selezionata una classe di enzimi che le singole particelle virali – i virioni – sfruttano per uscire dalle cellule infettate per potersi così diffondere al resto dell’organismo. Un composto presente in tutte le crocifere, come broccoli, cavoli e cavolfiori – l’Indolo-3 Carbinolo (I3C) – sarebbe in grado di inibire l’attività di questi enzimi. In questo modo, seppur ancora solo in provetta, ha bloccato l’uscita e la moltiplicazione del virus dalle cellule. 

Guarda il video “Covid, l’enzima contro il virus”

La ricerca Pfizer

Parlando ancora di enzimi – che poi, non sono altro che proteine dalla forma più complessa – degne di nota sono le sperimentazioni della conosciutissima Pfizer. La prima, da poco entrata in fase I, è relativa ad un farmaco destinato ad essere somministrato per via orale che, negli studi preclinici, ha mostrato una potente azione antivirale. La seconda, già in fase di analisi sugli umani, riguarda l’inibizione dell’enzima Main Protease, una molecola essenziale alla replicazione del virus. Il farmaco, basato su principi simili al primo, viene somministrato esclusivamente per via endovenosa. È però più vicino all’approvazione perché, in realtà, era già stato progettato ai tempi della Sars, la Sindrome respiratoria non troppo diversa dalla Covid-19.

 

Prevenire è meglio…ma non è stato fatto

Prevenire, mai proverbio è stato più azzeccato, sarebbe infatti meglio che curare. Nel 2003, in risposta ai preoccupanti focolai di Sars, Robert Webster, virologo del St. Jude Children’s Research Hospital di Memphis, avvertì sulla necessità di produrre farmaci capaci di attaccare un’ampia gamma di patogeni virali. «La comunità scientifica – ha affermato Webster – avrebbe dovuto sviluppare antivirali universali contro la SARS. Solo così avremmo avuto qualcosa da usare quando è emersa la COVID».

I due virus, infatti, sono strettamente imparentati e, se la comunità scientifica gli avesse dato ascolto, le cose forse sarebbero andate diversamente. 

Dove si fa prevenzione. Il caso britannico e quello cubano

Ad ogni modo con il Sars-Cov-2, data l’elevata probabilità che diventi endemico, dovremmo convincerci come già facciamo con altri ceppi influenzali. Pertanto, disporre di un insieme di farmaci ad azione diretta e di farmaci che agiscano sull’ospite, è quanto mai prioritario. L’importanza delle cure domiciliari, non a caso, è stata più volte ribadita nelle ultime settimane. Mentre il nostro protocollo nazionale prevede la ‘vigile attesa’ e la somministrazione di Paracetamolo e Fans, molti medici ed altri Stati hanno raccomandato l’impiego tempestivo di strategie potenzialmente utili a rallentare il decorso della malattia. In Gran Bretagna, ad esempio – come riporta il The Guardian – è stata da poco istituita una task force medica per individuare al più presto una cura domiciliare che possa prevenire un decorso negativo della malattia e quindi l’ospedalizzazione. C’è poi il caso di Cuba, dove l’assistenza capillare dei pazienti è stata da subito la prima scelta. Qui, il protocollo di attuazione nazionale per il trattamento della Covid-19 prevede 6 fasi che, attraverso una combinazione di farmaci e supplementi tra i più promettenti e una sorveglianza attiva, garantisce sia la prevenzione che la cura della malattia. Chi più intraprendente e chi più cauto, armarsi contro il virus ha accomunato praticamente tutti i Paesi del Pianeta. In attesa dei primi risultati delle campagne di vaccinazione e confidando nel rigore scientifico, attendiamo fiduciosi l’approvazione di farmaci definitivamente efficaci. Sperando, però, che in questo caso non si ripetano gli errori del passato. 

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Simone Valeri
Simone Valeri
Laureato presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" in Scienze Ambientali prima, e in Ecobiologia poi. Attualmente frequenta, presso la medesima università, il corso di Dottorato in Scienze Ecologiche. Divulgare, informare e sensibilizzare per creare consapevolezza ecologica: fermamente convinto che sia il modo migliore per intraprendere la via della sostenibilità. Per questo, e soprattutto per passione, inizia a collaborare con diverse testate giornalistiche del settore, senza rinunciare mai ai viaggi con lo zaino in spalla e alle escursioni tra mare e montagna

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