Animali positivi al Sars-Cov2: niente allarmismi, è solo ecologia

Animali positivi al Sars-Cov2: niente allarmismi, è solo ecologia

I casi di animali, selvatici e non, positivi al nuovo coronavirus sembrerebbero aumentare, ma le specie infettate, in realtà, si contano sulle dita d’una mano. Che il virus cerchi nuovi ospiti è del tutto naturale. Ma la vera alleata dei virus è la distruzione dell’ambiente naturale

Nadia, una tigre di quattro anni dello zoo del Bronx a New York, è stato il primo animale non domestico al mondo ad aver contratto la Covid-19. Manifestando tosse e respiro sibilante, poco dopo, altre quattro tigri e tre leoni sono stati testati, per poi risultare anch’essi positivi al Sars-Cov2. A partire da questa ed altre vicende simili, il dibattito si è aperto: qual è il ruolo delle specie animali in questa pandemia? Le incertezze non mancano, ma appurato è che il virus, seppur di origine animale, provoca una malattia essenzialmente umana. 

 

Gli animali domestici

Venendo a noi, particolare clamore ha suscitato il caso di una barboncina di Bitonto, risultata positiva i primi di novembre. Sebbene quello della cagnolina sia il primo caso in cui il virus sia stato riscontrato ancora in forma attiva, uno studio in fase di pubblicazione, condotto dalle Università di Bari, Milano e Liverpool, ha dimostrato che gli animali domestici contraggono comunemente l’infezione.

Su un campione di 817 animali, gli anticorpi al Sars-Cov2 sono stati rinvenuti nel 3.4% dei cani e nel 3.9% dei gatti analizzati. Gli esperti comunque rassicurano: gli animali domestici sono spesso asintomatici e in nessun caso possono trasmettere l’infezione all’uomo. 

Il caso dei visoni del Nord Europa

Più complesso è il caso dei focolai di coronavirus esplosi in degli allevamenti di visoni in Danimarca e in Olanda. Come per gli animali da compagnia, anche in questo caso la trasmissione è stata inizialmente dall’uomo agli animali, ma a preoccupare è stato un sequenziamento genomico condotto dall’Erasmus medical center di Rotterdam. Le analisi, infatti, hanno suggerito che il virus, una volta trasmesso dall’uomo all’animale, in alcuni casi, potrebbe esser stato trasmesso nella direzione opposta, dai visoni ai loro allevatori.

 

I virus, parassiti “obbligati”

Comunque, non è necessario allarmarsi più del dovuto. Tutto dipende dalla “biologia” dei virus e, in particolare, dallo “spillover” o salto di specie. I virus, entità biologiche a cavallo tra la vita e la materia inerme, sono provvisti solamente di una delle due molecole portanti: il Dna o l’Rna. Vien da sé la loro la natura da parassiti obbligati. Per potersi replicare, infatti, devono necessariamente infettare una cellula vivente e per farlo devono cercare costantemente nuovi organismi che li “ospitino”.

Mutazioni e ricerca di nuove specie

Una volta avviata l’infezione, oltre a moltiplicarsi, i virus tendono a mutare le loro caratteristiche per poi, non appena se ne presentano le condizioni, infettare una nuova specie. I coronavirus poi, hanno un tasso di mutazione tra i più elevati, il che giustifica la relativa facilità con cui hanno “saltato la specie”. Torniamo così allo spillover, motivo per cui, nonostante non si conosca ancora l’ospite intermedio, il Sars-Cov2 è arrivato a noi probabilmente dai pipistrelli.  

Il vero problema? La gestione umana, come sempre

Gli animali non rappresentano una minaccia diretta, abbatterli o abbandonarli non ha alcun senso. Il rischio, piuttosto, è che possano convertirsi in dei serbatoi naturali di Sars-Cov2 ma, a fare la differenza, è la gestione umana delle realtà zootecniche e dell’ambiente naturale nel complesso. Il vero problema, infatti, è la distruzione degli ecosistemi e non qualche sporadico caso di specie animale covid-positiva.

Dal virus della Mers, che prima di arrivare all’uomo ha fatto “tappa” nei dromedari, fino all’Hiv arrivato a noi direttamente dagli scimpanzé: non è un caso che tutte le malattie infettive a carattere epidemico si siano originate in contesti in cui lo spillover sia stato facilitato.

Le epidemie e la perdita di biodiversità

Che tra la perdita di biodiversità e il verificarsi di epidemie c’è un legame, è stato dimostrato. Con il report Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi, il Wwf è stato tra i primi a lanciare l’allarme. L’associazione ambientalista ha spiegato, infatti, che il passaggio di patogeni dagli animali selvatici all’uomo è facilitato dalla progressiva distruzione e alterazione degli ecosistemi.

 

La soluzione. Smettere di distruggere

La biodiversità, costantemente minacciata, viene rilegata in aree sempre più ristrette dove il contatto con le attività umane è via via maggiore. In assenza di “zone tampone” naturali, quindi, l’uomo è criticamente esposto a malattie che diversamente tenderebbero a diffondersi esclusivamente tra le specie animali. Proteggere la biodiversità potrebbe quindi essere la soluzione per scongiurare nuove pandemie? Gli esperti non hanno dubbi. Nonostante ciò, la distruzione degli ecosistemi e la perdita di biodiversità che ne deriva non sembrano subire battute di arresto. Ad oggi, oltre un milione di specie è a rischio di estinzione.

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Simone Valeri
Simone Valeri
Laureato presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" in Scienze Ambientali prima, e in Ecobiologia poi. Attualmente frequenta, presso la medesima università, il corso di Dottorato in Scienze Ecologiche. Divulgare, informare e sensibilizzare per creare consapevolezza ecologica: fermamente convinto che sia il modo migliore per intraprendere la via della sostenibilità. Per questo, e soprattutto per passione, inizia a collaborare con diverse testate giornalistiche del settore, senza rinunciare mai ai viaggi con lo zaino in spalla e alle escursioni tra mare e montagna

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