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esperimenti animali

Sperimentazione animale, quando il sacrificio è inutile

La Direttiva 2010/63/Ue ha favorito la diminuzione degli animali usati nella ricerca, in Italia come in molti altri Stati. Ma uno studio pubblicato su Bmj Open Science dimostra che si potrebbe fare di più: i dati raccontano che il numero degli animali sacrificati non si riflette nel numero di articoli scientifici pubblicati

10 Novembre, 2020
3 minuti di lettura

Uno studio pubblicato sulla rivista medica open access Bmj Open Science illustra che in tre dipartimenti dello University Medical Center Utrecht (Umcu), nei Paesi Bassi, la maggior parte degli animali utilizzati nella sperimentazione nel biennio 2008-2009 non sono stati considerati negli articoli scientifici pubblicati in seguito. Gli autori credono che questo succeda anche in altre istituzioni e in altri Paesi. Perché accade e come si può migliorare questa situazione?

 

Se i conti non tornano

Il progresso scientifico si basa sulla sperimentazione. È il metodo scientifico: si osserva un fenomeno, ci si pone delle domande, quindi si formula un’ipotesi che lo spieghi. Per verificare l’ipotesi scaturita si progetta un esperimento, se ne definiscono con attenzione i protocolli per assicurarne la riproducibilità, si conducono le analisi, si raccolgono i risultati che vengono quindi interpretati per giungere a una conclusione. Tutto questo non rimane tra le mura del laboratorio ma viene pubblicato sulle riviste scientifiche, affinché altri ricercatori possano usare queste informazioni per i propri studi. Purtroppo non sempre si raggiunge questa fase finale. Se non condiviso, il lavoro svolto diventa uno spreco di tempo, energie e denaro. Nella ricerca biomedica, però, si può trasformare anche nel sacrificio inutile di esseri viventi.

Lo studio di Bmj Open Science

Gli autori dell’articolo pubblicato su Bmj Open Science hanno selezionato i protocolli per studi su animali approvati dal University Medical Center Utrecht nel 2008 e 2009 per capire quanti avessero portato a dati scientifici pubblicabili entro 7 anni, un intervallo di tempo ragionevole per l’eventuale sviluppo della ricerca, ossia il “follow up”.

I risultati sono stati amari: il 60% di tutti i protocolli ha portato, alla fine, a non più di una pubblicazione. In questi studi è stato utilizzato un totale di 5.590 animali e solo il 26% è stato riportato nelle pubblicazioni trovate.

La direttiva Ue e la regola delle tre R

Nonostante i numeri della sperimentazione animale stiano scendendo di anno in anno in alcune nazioni della comunità europea, potremmo migliorare cercando di rendere sempre pubblici protocolli e risultati ottenuti. Prima di capire come procedere con questo ulteriore passo, diamo uno sguardo ai dati sulla sperimentazione animale in Italia. Attualmente nella nostra nazione è stata recepita e applicata la Direttiva 2010/63/Ue,  che ha come obiettivo l’eliminazione delle disparità tra le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri, al fine di migliorare il benessere degli animali utilizzati per scopi scientifici. La direttiva è governata dalla regola delle 3 R , introdotta nel 1959, dagli accademici William Russell e Rex Burch: i ricercatori che si occupano di sperimentazione animale devono adoperare, quando possibile, un metodo alternativo per sostituire (Replace) gli esperimenti su esseri viventi, ridurre (Reduce) al minimo il numero di animali e migliorare (Refine) le condizioni degli animali, risparmiando loro stress e dolore.

I dati in Italia

Come sta andando in Italia? I dati raccolti e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale tra il 2007 e il 2017 evidenziano una diminuzione nel totale di animali usati per la ricerca. Nel primo grafico è evidenziata questa tendenza, si nota solo un nuovo e lieve aumento nel 2016 che, come riportato nel sito del Ministero della Salute è dovuto all’impiego per le attività scientifiche obbligatorie e disciplinate da altra normativa, quali la verifica della tossicità e sicurezza di vaccini e farmaci.

 

 

Nelle altre due rappresentazioni grafiche è possibile osservare nello specifico quali animali siano stati adoperati e il loro numero nel corso degli anni. È necessario precisare che con il recepimento della direttiva europea, dopo il 2014, è stato cambiato il modo di raggruppare gli animali pur mantenendo lo stesso sistema di conteggio. Per questo motivo abbiamo suddiviso l’analisi in due periodi, il primo compreso tra il 2007 e il 2013 e il secondo tra il 2014 e il 2019.

 

Salta all’occhio che topi, ratti e porcellini d’India la fanno da padroni e che fortunatamente, di anno in anno, il numero di esemplari adoperati sta diminuendo. Questi numeri, però, dovrebbero corrispondere a risultati condivisi, utili al progresso nella ricerca. In Italia come in qualsiasi altro Paese. Per ora abbiamo a disposizione solo poche informazioni per dimostrare che ciò non avviene sempre, ma questo dovrebbe già essere un campanello d’allarme.

Come evitare sacrifici inutili?

Perché i risultati di alcuni studi non vengono pubblicati? A volte sono reputati poco interessanti, altre i dati non sono significativi statisticamente o fanno parte di un progetto pilota. Può anche capitare che ci siano problemi tecnici con i modelli animali. Nel mondo della ricerca spesso si evita di condividere i fallimenti, un pregiudizio (bias) che influenza gli autori così come i referee, coloro che controllano e revisionano i lavori prima della pubblicazione. Condividere i propri protocolli e risultati in ogni caso, invece, permetterebbe di evitare di inciampare negli stessi errori, e di non ripetere sbagli che qualcuno ha già commesso. Ciò si tradurrebbe in un utilizzo più efficiente degli animali a scopi scientifici.

Soluzioni possibili

Una delle soluzioni è un registro dedicato alla sperimentazione animale creato proprio dagli autori dell’articolo su BMJ Open Science: un database  in cui i ricercatori possano condividere metodologie, protocolli e ipotesi prima di portare avanti i propri esperimenti. Iniziative di questo tipo non sono del tutto nuove infatti, in Germania, esiste un registro simile, l’Animal Study Registry  del German Centre for the Protection of Laboratory Animals. C’è anche Arrive, nato nel 2010 grazie al National Centre for the Replacement, Refinement and Reduction of Animals in Research del Regno Unito.

Arrive (Animal Research: Reporting of In Vivo Experiments) fornisce delle linee guida, una checklist di raccomandazioni per migliorare la pianificazione e scrittura di lavori che coinvolgano la sperimentazione animale, massimizzando la qualità e l’attendibilità delle ricerche pubblicate e permettendo ad altri scienziati di controllare, valutare e riprodurre gli esperimenti riportati. Senza sacrifici di animali e spreco di denaro.

Mielizia

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Alessia Colaianni
Alessia Colaianni
Laureata in Scienza e Tecnologie per la Diagnostica e Conservazione dei Beni Culturali, dottore di ricerca in Geomorfologia e Dinamica Ambientale, è infine approdata sulle rive della comunicazione. Giornalista pubblicista dal 2014, ha raccontato storie di scienza, natura e arte per testate locali e nazionali. Ha collaborato come curatrice dei contenuti del sito della rivista di divulgazione scientifica Sapere e ha fatto parte del team della comunicazione del Festival della Divulgazione di Potenza. Ama gli animali, il disegno naturalistico e le serie tv.
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