È la prima cosa che facciamo venendo al mondo e l’ultima, prima di lasciarlo. Inspiriamo. Espiriamo. Respiriamo. Qualcosa dall’esterno viene in noi, qualcosa che sta in noi fluisce fuori. È così che ci mettiamo in relazione con il mondo. Con l’aria, naturalmente, ma anche la luce, gli oggetti, gli odori, il cibo e con le persone, le emozioni, le idee Alla base del “respirare il mondo” c’è un processo organico fondamentale che gli antichi conoscevano benissimo e di cui noi moderni diventavamo generalmente consapevoli solo e se decidevamo di dedicarci alla meditazione Zen o allo yoga. Questo, fino a febbraio 2020.
Poi il mondo ha preso un’altra piega e respirare è diventato un problema. Non a caso la Covid-19 attacca soprattutto i polmoni, straordinario organo sociale, e ci ha co-stretti a casa, privandoci dell’aria aperta e dei contatti umani. Da allora, siamo diventati consapevoli del respiro che si intossica dentro le mascherine e dell’ansimare di chi correndo ci alita troppo addosso lungo la ciclabile, dell’aria che ci ossigena e ci mantiene vivi, ma potrebbe veicolare la malattia e la morte. È un cambiamento epocale, almeno per noi contemporanei.
Non sappiamo quanto durerà. Né tanto meno prevedere gli effetti antropologici e infine sociali di questa nuova paura di respirare, del respirare con cautela, con diffidenza.
Un respirare “in regola”, insomma, per proteggere la vita. Eppure, si chiedeva di recente Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera:
«Quale vita abbiamo protetto in questi anni, a scuola, con la stessa determinazione con cui compriamo banchi e mascherine? Anche se riusciremo a non fare ammalare nessuno, riusciremo a far crescere qualcuno?». E ancora: «Le regole servono a proteggere la vita non bastano a dare la vita, che nasce e cresce con relazioni generative».
Che giovani e adulti saranno i bambini che avranno respirato mesi per tutta la giornata, a scuola, a mensa, in palestra, sull’autobus, dentro i dispositivi di protezione individuale? Quali idee avranno se è vero che il deficit di ossigenazione cerebrale e l’aumento di anidride carbonica attaccano duramente le forze vitali e rendono difficili muovere il corpo tanto quanto il pensiero? Perché respirare non è solo la funzione vitale grazie a cui i polmoni effettuano “scambi gassosi tra l’atmosfera e il sangue”, respirare è in verità il fondamento e l’essenza del processo educativo.
«Detto sommariamente, il bambino non è ancora capace di respirare interiormente nel giusto modo e l’educazione dovrà consistere nell’insegnarglielo» disse Rudolf Steiner nell’agosto 1919 ai maestri della prima scuola Waldorf durante la prima lezione del corso di preparazione.
Un pilastro, quindi. “Respirare interiormente” non è allora solo il gesto di scambi gassosi automatici, ma qualcosa che i bambini non sanno fare e che sta a noi educatori insegnare. Perché il respiro è, innanzitutto, ritmo: dentro-fuori, sonno-veglia, piano-forte, veloce-lento, concentrazione-espansione, lezione-pausa. E ritmo è vita, non c’è niente di vivo che non abbia un ritmo, dal pulsare della cellula alle stagioni, dal ciclo giorno-notte al battito del cuore che è il nostro ritmo costante, quello che ci cura, perché nel ritmo non ci stanchiamo, provare per credere.
Quando le giornate e le attività hanno un ritmo sano, perché alternano concentrazione e relax, lavoro e riposo, socialità e solitudine noi respiriamo meglio.
E i bambini, che pure vengono al mondo con un innato senso della giustizia, il ritmo non possono trovarlo da soli, è la famiglia (e poi il nido, l’asilo, la scuola) che deve darglielo. Da piccolissimi, avere le giornate scandite e poi andare a letto con un piccolo rito (una canzoncina, una candela accesa, le luci soffuse…) aiuta il bambino a rilassarsi e ad affidarsi all’adulto, significa ridurre l’ansia e le domande (“e dopo?”).
Quanto è facile? Dipende. Il rischio è di scivolare o verso la modalità “pigiama” di chi fa fatica a strutturarsi e si perde o in quella “marines” di chi trasforma il ritmo in un metronomo, meccanico e rigido. Come possiamo sapere se stiamo proponendo ai nostri bambini il giusto ritmo? Osservando noi stessi e il “respirare” delle nostre giornate, dei ritmi che ci lasciamo imporre e di quello della nostra biografia: com’è? Siamo sempre in apnea cercando di controllare tutto o rimandiamo ad a un più tardi che non viene mai?
Quando poi crescono, è sano creare al bambino uno spazio-tempo scandito da attività che tengano conto del passare del tempo, sia a casa che all’asilo. Vuol dire personalizzare i giorni della settimana con attività diverse (il lunedì facciamo il pane, il martedì un disegno…) e sottolineare il passaggio delle stagioni perché anche l’anno e la terra respirano con noi: inspirano in inverno quando è tutto brullo fuori ma “dentro” c’illumina il Natale ed espirano in estate con la natura che è un tripudio di vegetazione ma siamo tutti un po’ disancorati. È la giusta alternanza che costruisce quella saldezza interiore che poi, a scuola, diventerà capacità di concentrazione. Scrive il pedagogista olandese Coenraad van Houten nel suo “Imparare ad imparare. La formazione dell’adulto come risveglio della volontà” (Edizioni Arcobaleno, 2001):
Nel processo di apprendimento come minimo dobbiamo prestate attenzione se vogliamo trattenere qualcosa e la respirazione diventa una forma archetipica dell’imparare»
Respirare interiormente è diventare capaci di percepire e poi di stare attenti per portare dentro noi quel che sta dicendo l’insegnante. Perché diventi veramente nostro dovremo non solo inspirarlo, ma riscaldarlo con il nostro interesse, nutrircene ed elaborarlo fino a farne qualcosa di nuovo e rigenerato in un continuo processo tra il lavoro della coscienza e la riproduzione organica.
Guardiamoli, allora, i nostri studenti, magari proprio quelli agitati, con difficoltà di attenzione: com’è il loro respiro? E aiutiamoli a renderlo profondo attraverso il movimento, il lavoro con le mani e l’arte che sempre lavora nel nostro sistema ritmico.
Educare al respiro: un’altra delle nostre responsabilità.