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allevamento intensivo maiali
Un allevamento intensivo di maiali. Oltre ad essere inutilmente disumani, questi sistemi di allevamento sono anche altamente inquinanti e nocivi a persone e territori

Allevamenti intensivi e ammoniaca. L’inchiesta di Greenpeace

L'associazione ambientalista svela le aziende zootecniche che inquinano e ricevono finanziamenti pubblici: 17.000.000 di euro in Lombardia. A rischio le regioni della Pianura Padana
16 Novembre, 2022
2 minuti di lettura

Gli allevamenti intensivi sono spesso associati allo sfruttamento degli animali: al sovraffollamento, al massiccio uso di farmaci, anche a livello preventivo. C’è però un aspetto che non sempre viene preso in considerazione: l’impatto sull’ambiente con l’emissione di sostanze inquinanti. Secondo l’inchiesta di Greenpeace dal titolo: “Allevamenti intensivi: emettono ammoniaca e ricevono fondi pubblici”, a destare preoccupazione è soprattutto l’elevata concentrazione di ammoniaca (NH3). Una sostanza che si combina con ossidi di azoto e di zolfo generando polveri sottili (PM2,5), e che ha degli effetti nocivi sulla salute umana: nel 2019 sono state responsabili di quasi 50.000 morti premature in Itala. E in particolare nelle regioni della Pianura Padana, dove sono presenti il 90 per cento degli allevamenti italiani che nel 2020 hanno messo più ammoniaca.

 

 

Attraverso una mappa, l’associazione ambientalista ha individuato 894 allevamenti inquinanti appartenenti a 722 aziende, di queste alcune sono legate al colosso assicurativo Generali, a Veronesi SpA, holding che comprende i marchi Aia e Negroni, altre a grandi aziende della zootecnia come il gruppo Cascone.

I dati forniti da Ispra e Agea, dimostrano che almeno 9 aziende su 10, tra quelle presenti nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), hanno ricevuto finanziamenti nel 2020 nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC), per un totale di oltre 32 milioni di euro, con una media di 50.000 euro ad azienda. Quasi 17.000.000 di euro sono stati stanziati per la Lombardia.  Sempre nel 2020, l’E-PRTR ha rilevato che rimangono fuori dal monitoraggio oltre il 92 per cento delle emissioni di ammoniaca dello stesso settore. «La normativa attualmente in vigore consente di monitorare solo le emissioni degli stabilimenti più grandi, in grado di ospitare oltre quarantamila polli, duemila maiali o 750 scrofe, escludendo completamente gli allevamenti di bovini, nonostante siano a loro volta responsabili di rilevanti emissioni di ammoniaca e metano- si legge nel rapporto- Rimangono fuori anche tutte quelle aziende che, pur essendo sotto la soglia minima che obbliga alla comunicazione dei dati, concorrono alle emissioni totali del settore».

Guarda il video sugli allevamenti intensivi di Greenpeace

 

Non si possono così individuare molti responsabili. Inoltre è evidente il ritardo del settore dell’allevamento nel raggiungere gli obiettivi 2030. Un gap che non può essere colmato soltanto con l’utilizzo di nuove tecnologie.

«Sembra che si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati attività insalubri di prima classe, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni- ha dichiarato Simona Savini, campagna Agricoltura di Greenpeace Italia- Per farlo in modo efficace, occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei».

 

Nell’inchiesta si evidenzia come la Commissione europea dallo scorso aprile abbia avviato delle politiche per estendere il numero di tipologie di allevamenti intensivi da monitorare. Nella prima bozza della direttiva sulle emissioni industriali, sottolinea Greenpeace, era stata fissata la soglia per gli allevamenti intensivi di 100 Uba (unità di bovino adulto). Però la lobby agricola ha fatto aumentare il numero. Così i benefici per la salute da 7,3 miliardi di euro all’anno sono stati ridotti a 5,5 miliardi di euro. Con una sensibile perdita economica. Ma per ridurre le emissioni sono necessarie anche altre misure, a partire  dall’adozione di diete più ricche di alimenti di origine vegetale, che con il sostegno pubblico dovranno essere accessibili a tutta la popolazione.

 

Mielizia

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.
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