Toniamo lungo i sentieri delle parole, seguendo il filo dei pensieri di questo alfabetico cammino incontro al proprio bambino, figlio o alunno che sia, per non dire del nostro bambino interiore che sempre ci chiama e sistematicamente ignoriamo, per arrivare alla P dove si staglia, ineluttabile, il nome del Padre. Un Everest, niente da dire, al cospetto del tutto o quasi che è stato già detto.
Arriva, questa P, subito dopo l’estate, per definizione il tempo della sospensione, dei giorni che si fanno un po’ sbandati dalla mancanza di ritmo e del caldo che liquefa i pensieri.
L’estate che quest’anno è volata via e ci ha già proiettato nel passaggio autunnale. Si intitola proprio “Nella cura dei passaggi sta la nostra umanità” l’incontro organizzato dall’Associazione italiana per la pedagogia curativa e la socioterapia antroposofiche, a sottolineare quanto importante sia questo nostro presente in cui niente è più come prima ma neppure così smagliante e “altro” da farci presagire un nuovo poi. Scriveva l’attivista e scrittrice indiana Arundhaty Roy il 2 aprile scorso sul Financial Times:
«Storicamente, le pandemie hanno costretto l’umanità a rompere con il passato e ad immaginare il mondo da zero. Questa non è diversa. E niente sarebbe peggio che tornare alla normalità».
Sembrava allora che il congelamento potesse portarci a pensare alla Covid 19 come ad un “portale, un ponte da un mondo e un altro”: da quello grigio, iniquo, avaro e mortifero ad uno per cui varrebbe la pena di lottare. E invece ben poco sembra essere davvero cambiato e dunque serpeggia, più o meno latente, la paura. La paura ci parla del padre come di colui che percuote o punisce o colui che protegge. Ce ne ha parlato anche l’estate che fino a qualche decennio fa, quando lo smartworking era molto di là da venire, era per antonomasia il tempo dei padri: per un po’ facevano avanti e indietro tra il lavoro e la famiglia e poi, finalmente, giorni interi da trascorrere insieme a questa figura inevitabilmente mitica, mai pienamente accessibile e comprensibile. Com’è (forse) giusto che sia:
«Mentre la madre resterà sempre la condizione dell’esistere, la funzione del padre consiste nell’aiutare ciò che esiste a divenire» scrisse d’altro canto lo psicoanalista Eugenio Gaddini nel lontano 1975.
Il paterno come luogo di ciò che saremo non è dunque possibile abitarlo a lungo, ma ci tocca rincorrerlo fino alla morte, sfiorarlo a volte, albergarlo per qualche tempo per poi riprendere il cammino verso quel che desideriamo diventare per tener fede alla stella del nostro destino. E questo andare mette in luce un bell’intreccio fra lettere e parole. Perché abbiamo dedicato alla M un approfondimento sulle mani e l’etimologia ci dice che la radice di mano e madre è la stessa, quel “ma” sanscrito che ordina, misura, dà forma e prepara, mentre “pa” è il padre che nutre e custodisce, che sostiene durante il “pa-dà”, l’andare nel mondo che ci permettono i piedi. Di un paterno che protegge e incoraggia abbiamo quanto mai bisogno per fronteggiare l’autunno che ci si para davanti: la crisi economica, sociale e sanitaria, la scuola martoriata e depredata, con i bambini che dovranno imparare ad aver paura del compagno di banco, dei giochi e delle relazioni.
Ma ogni autunno ha bisogno del padre, se autunno coincide con l’istante in cui il frutto maturo può staccarsi dal proprio ramo e padre con ciò che permette di congedarsi dall’infanzia come regno della madre, dell’appartenenza e dei legami fusionali per diventare adulti. La funzione regolativa del padre, i “no” della figura genitoriale che oppone resistenza (paterna in senso archetipico e simbolico) e incarna la Legge e il riconoscimento dell’Altro attraverso il linguaggio, sono i limiti che permettono al figlio di misurarsi con le proprie forze e cercare il proprio percorso attraversando il vortice di sentimenti, pulsioni, autodeterminazione e autoregolazione che chiamiamo adolescenza: il processo di separazione che presiede il diventare noi stessi passa per la porta del padre. All’evaporazione del padre, corrispondono le passioni tristi del libro illuminante di Benasayag e Schmit.
Mito, letteratura, psicoanalisi, giurisprudenza offrono innumerevoli percorsi per rintracciare le evoluzioni di un ruolo – e una funzione – che da decenni, ormai, si sfilaccia di fronte alle sfide della contemporaneità. Negli atti di un bel convegno intitolato “Padri: storia di una metamorfosi” (Borla, 2015) si parla della necessità «di riempire il vuoto lasciato da un’immagine paterna così sfocata con qualcosa che dia senso alla nostra vita, perché la vita, per avere valore, ha bisogno di senso» in una «società che ha cancellato i riti di passaggio, che promuove il tutto e subito raggiunto con il minore degli sforzi, che espelle coloro che non riescono a stare al passo, dove è sempre più difficile scegliere, assumersi le responsabilità».
Padre è Crono che divora i suoi figli, è Bernardone a cui Francesco d’Assisi rimette persino le vesti, è Monaldo Leopardi che svergogna il giovane Giacomo e Hermann Kafka a cui Franz non consegnerà mai la sua struggente lettera. Padre è Ulisse che Telemaco attende per venti anni e che per Telemaco accettò di partire per Troia, è il padre che preserva l’umanità ne “La strada” di McCarthy e Geppetto che quell’umanità vuole instillare in un ciocco di legno impunito. Padre è volontà del Logos che al Figlio chiede di agire per poter sperimentare la libertà. Padre era il Bramino che tutta la notte tenne il giovane Siddharta immobile e muto mentre le stelle passavano in cielo, finché s’accorse che il figlio non abitava già più con lui. Solo allora gli posò la mano sulla spalla:
«Andrai nella foresta – disse – e diverrai un Samana. Se nella foresta troverai la beatitudine, ritorna, e insegnami la beatitudine. Se troverai la delusione, ritorna: riprenderemo insieme a sacrificare agli dèi. Ora va’» (“Siddharta”, Hermann Hesse)