Dopo il confinamento forzato, asserragliati nelle case davanti allo schermo come unico periscopio sul mondo, dopo due mesi in cui siamo stati tutti hikikomori, possiamo dire di esserci avvicinati di qualche spanna ai milioni di ragazzi che hanno dichiarato guerra a loro stessi e al mondo, rovesciando il paradigma della ribellione adolescenziale?
Avvicinati interiormente, cercando di comprendere perché e cosa succede quando il gesto naturale della vita, che è espansivo, germogliante, addizionante, si rovescia nel chiuso di una stanza da cui parte il conto alla rovescia delle coordinate spazio-tempo: mondo risucchiato tra quattro mura e tempo disancorato, sospeso, sradicato e a suo modo “contro”. Tapparelle abbassate, la famiglia oltre una porta-soglia che si varca il meno possibile, gli amici potati a uno a uno fino ad azzerare l’agenda dei contatti e i profili social, ecco che le ore di questi ragazzi prendono a scorrere tutte uguali e il ritmo circadiano si inverte, video dopo video, gioco dopo gioco, in un presente eterno che vorrebbe ripristinare l’unica porzione di vita che valesse davvero la pena, l’infanzia. O forse, chissà, l’interezza della gravidanza.
La rivoluzione ibernata dei giovanissimi che si auto-recludono è un fenomeno che in Giappone è ormai emergenza sociale e si diffonde sempre più anche in Occidente, portato alla luce nel 1998 dallo psichiatra Tamaki Saito che per primo ne ha descritto i contorni in un libro ormai best-seller, “Hikikomori. Adolescence without End” purtroppo mai tradotto in italiano.
Sono ragazzi – maschi nel 90% dei casi con percentuali femminili in costante aumento – che pian piano si ritirano dalla vita sociale fino a esiliarsi in uno spazio chiuso sempre più piccolo: la casa, una stanza, nei casi più gravi solo il proprio letto.
Il termine deriva dal giapponese ひきこもり, letteralmente “tirare dentro, rifugiarsi” e i numeri sono ogni anno più impressionanti: lo stesso Saito azzarda a dire che allargando di pochissimo i parametri stabiliti dal Ministero della Salute (ritiro completo dalla società per più di sei mesi, abbandono scolastico e/o lavorativo, assenza di patologie psichiatriche rilevanti, assenza di contatti sociali) si può tranquillamente contarne nel suo paese quasi 10 milioni, mentre migliaia di casi si riportano nel sud est asiatico e in Cina, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Spagna, Francia, Oman.
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E se in Giappone hanno una età media di quasi quarant’anni, i 100mila hikikomori italiani hanno caratteristiche biografiche più legate all’adolescenza, almeno per ora. I primi sintomi, dicono i sondaggi, insorgono intorno ai 15 anni, in piena adolescenza, nel delicatissimo passaggio alle scuole superiori. Nelle chat dell’associazione italiana fondata da Marco Crepaldi è quasi sempre lei, la scuola, che svetta al primo posto delle classifiche di quel che i ragazzi vorrebbero cambiare.
Per questi giovani sensibili e introversi, un sistema educativo rigido, poco inclusivo e iper-valutante esaspera la fatica di affrontare l’apprendimento subendo il bullismo dei compagni, senza mai sentire gli insegnanti veramente al loro fianco.
Dalla derisione alla sconfitta il passo è breve e la disillusione venata di cinismo è la pelle spessa sotto cui si nasconde la ferita narcisistica, anticamera perfetta dell’auto-isolamento. Ma davvero non si può concepire una strada all’apprendimento che abolisca il voto come peraltro la scuola Steiner Waldorf o Montessori da più di cento anni e non tenga conto della pluralità di competenze, a cominciare da quelle che si acquisiscono grazie all’esperienza?
Come tutti i fenomeni patologici, anche questo è espressione di un dolore, di una faglia, di un fallimento sociale che i giovani in età evolutiva, fragili e intuitivi per definizione, esprimono in modo paradossale. Così la scuola viene abbandonata perché proprio loro ne percepiscono tutti i malfunzionamenti. Così la società, impietosamente competitiva e materialistica, è rinnegata al pari della famiglia: tutte le agenzie educative sono vissute come macigni stritolanti, tombe di una morte che respira, autoinflitta nel pieno della giovinezza.
Non ci assolva il pensare che il fenomeno sia figlio legittimo della rigida cultura nipponica votata all’iper-produttività e alla dipendenza filiale: gli eremiti teenagers delle case occidentali testimoniano che anche tra le pieghe del nostro benessere individualista è penetrato lo stesso disorientamento, si è generata la stessa risposta: nascondersi, sparire. Scrive Carla Ricci, antropologa bolognese da anni ricercatrice presso il dipartimento di Psicologia clinica dell’Università di Tokyo, autrice di diversi libri sul tema: «Hikikomori rappresenta uno dei tanti esiti imprevisti delle società contemporanee più “ricche”. La società è sempre più complessa, più competitiva, più arrogante ed anche più tecnologica, ma senza la preparazione psicologica dei suoi soggetti ad esserlo.
I giovani sono eccessivamente protetti dalla famiglia, più narcisisti, meno inclini ai sacrifici e meno sensibili a diventare indipendenti, tutti elementi che possono favorire la resa finale.
A questo si può aggiungere una diversa chiave di lettura e cioè che quei giovani hanno colto senza saperlo l’oscurità che regna “fuori” e fuori non ci vogliono stare, anche se non ne sanno i motivi».
In my hut this spring,
There is nothing
There is everything!Yamaguchi Sodō | Tang Yin#haiku #Japan pic.twitter.com/VBb5JPGN08
— Haiku (@white_haiku) September 26, 2018
È così che l’adolescenza si capovolge. Da esperienza di auto-determinazione diventa lotta asimmetrica di pura difesa: solo trincea, nessun attacco, un deserto dei tartari da videogame dove la videodipendenza non è che uno degli effetti collaterali della reclusione. Il nemico, nella guerra di questi ragazzi, è come l’aria, invisibile e penetrante: ovunque fuori ma anche, inevitabilmente, in loro. E da dentro muove i fili e dirige, plasmandone la personalità in un movimento di sola ritirata. Non è più lo scontro tra giovani contro vecchi che fortifica per affrontare le sfide del mondo adulto, ma una lotta impari, perduta in partenza, che fiacca la volontà e annienta ogni visione.
Guarda il video di Marco Crepaldi
Facile etichettare questi ragazzi benestanti e sani, spesso molto amati, come deboli e ingrati. Sono spauriti, è vero, ma a loro modo potenti. Ci pensiamo a quanto è stato duro nel lockdown sentire la nostra volontà e la propria autodeterminazione limitata dall’esterno? Ce lo riusciamo a immaginare quale sforzo immenso richieda l’innescare questo esilio da sé, ritirare tutte le armate – progettualità, incontri, affetti, l’espandersi biografico del proprio sé nel mondo – per arroccarsi nel proprio castello, ponti levatoi tirati su “per sempre”? Una volontà distorta e ripiegata in se stessa, un harakiri simbolico che chiede di non voler lasciare impronte, orme. Ragazzi che anelano a non essere, a non avere voce, muti come la H di questo alfabeto, a diventare invisibili e volatili come un’ombra. Fantasmi nutriti di altri fantasmi. Due haiku tradizionali sembrano davvero coglierne l’essenza:
Primavera
Nella mia capanna
Non c’è nulla e c’è tutto
Yamaguchi Sodō, (1642-1716)
Crepuscolo autunnale:
da solo faccio visita
a un’altra solitudine
Yosa Buson, (1716-1784)
Chi lavora ad alleviarne il dolore passa per terapie che prevedono avatar, visite a domicilio, fratelli “in prestito”, il canto e il teatro, la fotografia e la poesia: quando si riesce a convogliarli verso centri specializzati in cui si incontrano, cucinano e mangiano in gruppo è segno che i ponti levatoi si sono abbassati e il castello-corpo si è rianimato, come nella Bella addormentata nel bosco. Il corpo trascurato e negato.
Il corpo sempre meno agito e abitato che invece di mediare tra sé e la realtà si frappone come ostacolo odioso, da reprimere o ignorare, da svuotare per essere riempito delle immagini degli altri, realtà virtuale e internet in primis.
È al corpo che dobbiamo tornare, da sempre, da subito. Non c’è educazione senza corpo, calore, abbracci, contatto, com-unione. Senza corpo non si vive, non si apprende, non si cresce, né si ama. Speriamo che la scuola se ne accorga. Altrimenti, resta solo il buio, la ricerca di aiuto.