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Martiri dell'ambiente in Kenya )
L'assassinio, nel luglio scorso, dell'ambientalista Joannah Stutchbury.in Kenya è l'ennesimo di una lunga serie

La lunga scia di sangue, dal Kenya alla Colombia, dei martiri ambientali

Nel luglio scorso l'attivista kenyota Joannah Stutchbury, impegnata contro il land grabbing, è stata barbaramente uccisa da ignoti. Un agguato che allunga la lista degli omicidi che colpiscono i paladini della natura, in particolare nel Sud del mondo
15 Settembre, 2021
3 minuti di lettura

Erano trascorsi appena dieci giorni dalla condanna di uno degli autori dell’assassinio di Berta Cáceres, l’attivista ambientale uccisa nel 2016 in Honduras. Neanche il tempo di prendere atto che la giustizia, almeno in parte, stava facendo il suo corso quando alla conta dei martiri dell’ambientalismo s’è aggiunto il nome di Joannah Stutchbury. Accadeva lo scorso 16 luglio alla periferia di Nairobi, in Kenya, quando la 67enne impegnata da sempre nella difesa della foresta di Kiambu è rimasta vittima di una mano ignota che l’ha barbaramente uccisa a colpi di pistola.

 

 

Agguato mortale

La Stutchbury si era opposta per anni alle ruspe dei costruttori determinati nel perseguire il “land grabbing”, sottraendo alla comunità gli spazi della foresta. Proprio da un costruttore aveva ricevuto minacce nei mesi precedenti l’agguato. Di vero agguato si è infatti trattato: alcuni rami posti sul vialetto di casa l’hanno costretta a fermarsi e gli aggressori non hanno atteso neanche che scendesse dalla sua auto per giustiziarla.

Ma lei è soltanto l’ultima delle vittime ambientaliste in Kenya.

 

Esmond Bradley Martin
Esmond Bradley Martin, ucciso nel 2018, era Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la lotta al bracconaggio

 

Omicidi irrisolti

Sono ancora irrisolti gli omicidi, avvenuti in circostanze simili, degli attivisti ambientali, Esther Mwikali ed Esmond Bradley Martin. Esther Mwikali aveva 54 anni e fu trovata morta, il corpo mutilato, nel 2019 a due giorni dalla sua scomparsa. Come Joannah Stutchbury si opponeva alla speculazione edilizia e in difesa nella contea di Murang’a. Invece Esmond Bradley Martin è rimasto vittima, nel 2018 a Nairobi, della lotta contro il bracconaggio e, in particolare, contro il traffico di avorio. Di origini americane, era Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la lotta al bracconaggio.

 

 

Nello stesso anno altri due ambientalisti kenioti hanno perso la vita: Robert Kirotich era un indigeno Sengwer, che manifestava contro gli abusi che, in nome del progetto “WaTER” finanziato dall’Unione Europea, espropriava la terra ai residenti (il progetto è stato poi sospeso dalla stessa UE per violazione dei diritti umani). E ancora, Jomo Nyanguti è stato ucciso dalla polizia durante gli scontri scaturiti da una manifestazione di protesta contro la costruzione della diga di Bonyunyu. La costruzione, da parte di una compagnia olandese, della diga alta 35 metri sul fiume Gucha è stata decisa infatti senza interpellare la popolazione nativa, senza tenere in considerazione la perdita delle loro terre, lo stravolgimento dell’ambiente naturale ancestrale.

La morte degli attivisti è sempre seguita dal cordoglio delle autorità, ma la difesa dell’ambiente resta una posizione ancora pericolosa in molti paesi dell’Africa, dell’Asia e in particolar modo del Sud America.

 

Rapporto globale

Il rapporto 2020 “Defending Tomorrow” di Global Witness ha fatto il punto sugli omicidi commessi a danno degli attivisti ambientali nel 2019. L’America latina detiene il triste primato del maggior numero di vittime, che si sono opposte soprattutto alla speculazione delle grandi compagnie. L’instabilità politica contribuisce infatti all’illegalità e alla violenza contro gli oppositori, come testimoniano i 64 colombiani uccisi per la difesa dei territori e delle risorse naturali. Duecentododici i nomi dei morti che aprono il rapporto dedicato alle persone, alle comunità, alle organizzazioni che si battano per la difesa dei diritti umani e ambientali.

 

Guarda il video di Global witness sui martiri ambientali

 

La crescenza consapevolezza oppone infatti sempre più comunità allo sfruttamento delle terre da parte di compagnie di estrazione carbonifera, di metalli o pronte a distruggere l’economia di interi territori per costruzioni di grandi, quanto non necessarie, opere. Non meno preoccupante è la violenza contro gli attivisti nelle Filippine, che hanno visto, nel 2019, 43 assassinii. Global Witness riferisce che la crisi imposta da Covid-19 ha peggiorato ulteriormente la posizione degli oppositori, grazie alle misure draconiane che sono state imposte per il controllo dei cittadini e che, da difesa contro il virus, sono state sfruttate per fermare anche il dissenso sui problemi ambientali.

 

 

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Secondo Front Line Defenders, nel 2020, nonostante i periodi di lockdown e le restrizioni, sono stati 331 gli attivisti uccisi e di questi il 69% lottava per i diritti dell’ambiente e in difesa delle popolazioni minacciate dalle grandi società di speculazione. Ancora una volta la Colombia è in testa alla triste classifica – 177 omicidi –  seguita da  Filippine, Honduras, Messico, Afghanistan, Brasile e Guatemala. Altissimo il tributo pagato dalle popolazioni indigene che, pur rappresentando solo il 6% della popolazione mondiale, sono state le più colpite nel cercare di fermare i progetti delle industrie estrattive e lo sfruttamento delle risorse e dei territori delle popolazioni native.

E in Europa?

E se in Europa e America del Nord il ricorso all’omicidio e ben più limitato, non deve però restare inosservata la repressione del dissenso e la violenza contro i manifestanti che interessa, in particolare, i paesi dell’est Europa e dell’ex blocco sovietico. E proprio Front Line Defenders, perché sia riconosciuto il ruolo degli ambientalisti e si possa agire contro la violenza nei loro confronti, chiede infine che anche gli attivisti partecipino ai tavoli dei colloqui della ormai prossima Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà in autunno a Glasgow.

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