Alla fine è successo: le scuole hanno riaperto. Più o meno attrezzate, distanziate, sanificate, regolamentate, finalmente è successa l’unica cosa veramente importante. Gli insegnanti e gli alunni sono tornati in classe, a condividere lo stesso luogo fisico, a guardare la stessa lavagna, a respirare la stessa aria (ci torneremo, sull’aria). Insieme nella relazione, nell’incontro, nei corpi.
Perché è il corpo che impara, che apprende, non facciamoci illusioni pensando di ridurre tutto alla mente.
Dunque, sperando che tra dieci giorni non chiudano tutto, nelle fortunate giornate in presenza, quando le circolari, le direttive, la paura e l’allarme per i gesti fino a febbraio scorso normali e oggi potenzialmente “pericolosi” (passarsi la gomma, andare al bagno, fare ricreazione, mangiare il ciambellone della nonna…) passeranno finalmente in secondo piano, ogni insegnante potrà dedicarsi alla più interessante e insieme misteriosa esperienza dell’educare. Ossia, interrogarsi su come la personalità di ciascun bambino si esprima in modo manifesto in ogni cosa che realizza, dalla grafia all’acquerello, dai bordi (o mancanza di bordi) del foglio all’uso dei colori, dalla qualità dei movimenti alla plasticità degli animaletti che modella. Ogni pagina, ogni disegno, ogni problema di geometria, ogni gesto e sguardo rivelano moltissime caratteristiche dei nostri bambini: le capacità di orientamento, la creatività, le abilità logiche, certo, ma anche elementi più sottili come le loro forze vitali, la leggerezza o la pesantezza del pensiero, il sovraccarico del sistema neuro-sensoriale assediato dalle percezioni, il temperamento…
Di fronte a tanta ricchezza è facile scivolare nel giudizio, cadere nella categorizzazione e finire nella buca di sabbia della diagnosi: Marco è così, Alessia è cosà. Ogni volta che lo facciamo non solo abbiamo rinchiuso i bambini in una gabbia e buttato la chiave come nella fiaba dei Grimm “L’uomo di ferro”, ma ci siamo preclusi una possibilità.
«Davanti ai bambini, niente punti esclamativi solo punti di domanda» raccomanda il dottor Remigio Cenzato nei corsi di Pedagogia clinica.
Ed ecco dove abbiamo modo di incontrare la nostra Q, nell’alfabeto dell’ecopedagogia che stiamo percorrendo, la lettera del quesito e della “question” che la lingua inglese e francese hanno mantenuto. “Quest” deriva dal latino “quaerere” che è tanto il chiedere quanto il ricercare ed è non solo il viaggio come movimento ma il peregrinare avventuroso e irto di prove che spinge l’eroe a lasciare ciò che ha perché un fine mai egoistico, anzi spesso salvifico per la comunità intera, lo chiama irresistibilmente. Enea, Parsifal, Beowulf, Frodo Baggins errano, in tutti i sensi, finché il vagabondare e gli errori non li porteranno alla mèta.
Ogni educatore diventa eroe epico se e quando parte alla scoperta dei bambini e dei ragazzi che gli sono stati affidati, se e quando riesce a sentirli suoi quanto l’arco può affermare di possedere le sue frecce, per citare un’immagine della celebre poesia di Gibran.
Ogni qual volta un bambino risveglia il nostro interesse, vuoi per i suoi talenti o per le sue fragilità, siamo davanti ad un bivio. Possiamo cominciare a classificarlo facendo appello alle nostre molte conoscenze, all’esperienza professionale, ai test, ai coefficienti e ai quiz oppure possiamo sintonizzarci sul quid che lo rende così speciale (e chi non lo è?) da permettergli di prenderci per mano, condurci nel bosco fitto del suo essere venuto al mondo e osservarlo, farlo risuonare in noi, farne la mèta del nostro chiedere. Possiamo metterci più testa o più cuore. Avremo sempre dei risultati, ma la qualità sarà diversa e diversi gli strumenti che metteremo in campo per educarlo.
È il regno della Q, regina dell’interrogarsi che porta in sé la duplicità di ogni scelta anche nella sua natura di lettera che in passato veniva usata anche come segno numerale (valeva 90, 100 o 500 a seconda delle varie culture): di qui oppure di qua; questa strada o meglio quella; qualità o quantità?
Molti atteggiamenti del bambino, esteriormente simili, possono scaturire da necessità diverse: è qui che comincia l’indagine. Spregiudicata eppure empatica. Quotidiana… Esempio: avete mai provato a osservare così bene un bambino mentre cammina, corre e salta da poter poi, a casa, a camminare, correre e salire le scale proprio come fa lui? Rudolf Steiner ci dice che se riusciamo a immedesimarci così tanto nel corpo e nel movimento del bambino da poter camminare come lui, sapremo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per andargli incontro. Per capire come vive il mondo e nel mondo: se il suo saltellare o sbattere contro le persone e le cose viene da un vivere troppo nella gravità o dal sentirsi senza peso, se i suoi piani di orientamento nello spazio sono allineati, in che modo il suo agitarsi nel banco è un tentativo di percepirsi e cosa gli rende possibile concentrarsi o lasciarsi andare.
Guarda il documentario su Marin Buber di France culture
Al termine del viaggio, se siamo arrivati almeno vicini al Graal, noi e i bambini non saremo più solo due, ma quattro, ovvero quatuor “ciò che giova connettere”, due al quadrato: noi e il bambino all’inizio del cammino più il nuovo noi e il nuovo bambino che tagliano insieme il filo di lana del traguardo. Ogni sforzo di compenetrarsi dell’essenza del bambino senza incasellarlo nei bisogni ci avrà alleggerito, ogni errore riconosciuto e ogni sforzo genuino ci avrà purificato, come qualunque corpo dopo cinque successive distillazioni si è purificato e alleggerito del peggio per ottenere un’essenza purissima. In alchimia si chiama quintessenza e se proviamo a cercarla nell’educazione finiamo per dire che il vero maestro educa non grazie a ciò che sa, ma per come è. «Non tanto – sostiene il filosofo tedesco Martin Buber in “Educare all’incontro: la pedagogia” – per la dinamica di insegnamento-apprendimento (…) ma per come tutta l’esistenza corporea ne comprova la compiutezza dell’uomo». Nella sua biografia, per citare un altro esempio immenso, Gandhi ce lo dice così nel suo “La mia vita per la libertà”:
«Alla fattoria Tolstoj mi resi conto che dovevo in ogni momento essere di esempio ai ragazzi che vivevano con me. Così essi diventarono i miei maestri ed io imparai ad essere buono e a vivere rettamente, se non altro per amor loro».
Buon anno scolastico a tutti.