L’Aquila Vaia, ultima opera dello scultore Marco Martello, in arte Martalar, si erge maestosa e solitaria nella Piana di Marcesina, presso il Rifugio Barricata, nel comune di Grigno in Trentino. Già dal giorno in cui l’autore ha comunicato nei social di averla ultimata moltissime persone sono accorse per ammirarla. Misura sette metri di altezza, cinque di lunghezza e pesa 1.600 chilogrammi. È composta da un centinaio di metri di tavole in larice e da 1800 viti che legano i 1500 pezzi di materiale recuperato dagli alberi sradicati dalla tempesta di Vaia. Martalar, artista di fama internazionale, non è nuovo a simili realizzazioni; numerose sono le sculture che ha creato con questa tecnica di assemblamento. L’artista racconta:
«La tempesta Vaia è il filo conduttore che lega le mie opere, il materiale con cui le realizzo ci ricorda quell’uragano».
Nuova vita, nuovo turismo
È grazie alla sua creatività che queste aree sono rinate a nuova vita e diventate meta di esperienze artistiche per un turismo lento, dolce e desideroso di bellezza. La sua “Land art” offre l’opportunità di un approccio alternativo a panorami profondamente modificati e invita a visitare queste aree montane. I turisti raggiungono le sue opere avventurandosi fra sentieri che percorrono il bosco ferito, come avviene per il Drago di Vaia a Lavarone. Per ammirare le ultime realizzazioni: la Lupa del Lagorai e l’Aquila i visitatori si incamminano su strade sterrate. Molti arrivano a cavallo o in sella alla mountain-bike, altri a piedi assaporando il silenzio e immergendosi nel paesaggio circostante. Lo scultore di Mezzaselva preferisce creare le sue sculture direttamente sul luogo, all’aperto. Il suo è un atelier che ha per soffitto il cielo. «Per realizzare l’Aquila ho dedicato un mese e mezzo di lavoro e la considero l’ultima fatica, perché quando ho iniziato pioveva molto e ho dovuto affrontare molte difficoltà; prima fra tutte la strada piena di buche ed impraticabile. Il tempo poi si è sistemato e le criticità si sono dissolte».
Dopo la tempesta
Martalar osserva che degli alberi che popolavano il bosco, dopo la tempesta: «Sono rimaste le radici e i rami che non sono stati portati via; cinquanta anni fa la gente della montagna recuperava anche questi pezzi per riscaldarsi con le stufe in inverno. Oggi non c’è più nessuno che li raccoglie, le radici rimangono nel terreno, marciscono e diventano humus. Poi nei luoghi dove il bosco ha subito danni si sono diffuse le piante di piccoli frutti». Ma è dopo la tempesta, prosegue, che la natura rinasce. Anche senza l’intervento dell’uomo. «Si pensa di riforestare la montagna con piantagioni di giovani alberi. Vaia ha insegnato che la foresta di sole conifere presente nelle nostre montagne ormai da cento anni, in caso di tempeste violente subisce notevoli danni. Si è orientati piuttosto a realizzare boschi misti con alberi di faggio, frassino, acero e abeti».
Il futuro del bosco
Quanto al futuro del bosco, continua: «Ora è in atto l’epidemia di un parassita: il bostrico tipografo, un problema enorme forse più del Vaia. Questo piccolissimo coleottero è sempre stato presente nelle conifere ma non creava molto danno. In questo ultimo periodo ha avuto una enorme proliferazione a causa dei tronchi lasciati a terra per molto tempo e anche a causa della sofferenza degli abeti rossi». Il danno di questo parassita non passa inosservato e spostando lo sguardo verso le montagne è evidente che il verde scuro dei boschi è macchiato da vaste aree marroni: sono abeti infestati che lentamente muoiono e spiega lo scultore. «Gli alberi intaccati dal parassita con il clima caldo si seccano e in breve tempo muoiono. L’unica soluzione è il taglio delle piante malate; solo così si eliminano le larve e si limita la diffusione. Ma il lavoro è tanto e non c’è personale preparato. La figura del boscaiolo non esiste più. Con Vaia abbiamo dovuto ricorrere a lavoratori specializzati, proveniente dall’estero. Negli altri paesi europei si riesce a sopperire perché c’è anche molto volontariato».
L’arte dopo Vaia
Quello che è accaduto a Vaia ha comunque cambiato il suo modo di lavorare, e il suo sguardo artistico:
«Ha avuto un potente impatto emotivo che mi ha spinto a dare comunque un significato a questo evento attraverso l’arte».
La sofferenza subita dagli abeti ha modificato il suo modo di creare sculture attraverso il legno: «All’inizio scolpivo i tronchi, ma poi dopo Vaia, mentre lavoravo questi legni, che avevano sofferto a causa della tempesta, mi sembrava di arrecare loro ulteriore sofferenza. Ho pensato di avvicinarmi ad un’altra forma di scultura in cui non toglievo materiale ma bensì univo i pezzi lignei». Ha imparato una nuova tecnica e non è stato facile come ci racconta. «Il Leone alato è stato il primo esperimento e l’utilizzo di questa nuova tecnica è stata una nuova avventura; sono pochi gli artisti che l’adottano. Richiede molta sperimentazione e non aver paura di sbagliare, perché solo così si impara. L’idea della forma da dare alle statue viene dal mio passato di scultore di tipo tradizionale». Martalar ci ricorda che le sue realizzazioni non temono nulla e sottolinea: «La mia è una sfida delle sfide. Le mie opere nascono non per andare in piazza e tanto meno dentro ad un museo. Molte rimangono nella natura in balia del clima e degli eventi estremi a cui ormai ci stiamo abituando. La struttura, lo scheletro, l’anima deve essere solida per contrastare la bufera del vento e della neve».
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