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Pensiero e linguaggio: l’occasione persa del “digitale”

Una maggiore alfabetizzazione digitale potrebbe riportarci, a cominciare dai giovanissimi, a guardare alla tecnologia come uno strumento a disposizione della nostra creatività più che a un oggetto di consumo e divertimento che usiamo in modo acritico ed emozionale
21 Novembre, 2024
4 minuti di lettura

Sui “social” ti insegnano come difenderti dagli scarafaggi e mettono l’immagine di un maggiolino; ti raccontano delle rondini e l’uccello della fotografia è un rondone; ti invitano a contemplare la meraviglia di un campo di zafferano ed è lavanda; ti raccontano che l’Italia è il paese con la maggiore biodiversità di tutto il mondo, con cifre e raffronti con altri paesi che non stanno né in cielo né in terra!

Il copia incolla passivo di immagini dall’AI o dalla deficienza umana è implacabile: nessuna verifica, accettazione passiva, e i riflessi incondizionati di “attenzione”, tenerezza o indignazione bypassano eventuali conoscenze, dubbi, o uno straccio di ragionamento elementare.

Se poi si vuole essere coinvolti in una lite epica a livello planetario, basta che nella cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi qualcuno scambi il quadro vivente “olimpico” (per carità, opinabile) degli dei antichi in versione gay pride per una parodia blasfema dell’Ultima Cena di Leonardo e apriti cielo: chi l’aveva ideato forse nemmeno ci aveva pensato, ma che quello non era avrebbe dovuto chiaramente dirlo prima!

Digitali, rissosi e populisti

Trent’anni di accesso alla rete globale da parte di un pubblico planetario in larga misura analfabeta riguardo alle possibilità reali offerte dalla tecnologia, non solo non sembra avere aiutato l’umanità a lavorare e vivere meglio insieme, ma a quanto pare ci ha portato nell’era delle risse virtuali permanenti tra individui e gruppi sempre più arroganti e intolleranti, che non a caso corrisponde a un aumento della violenza e delle guerre nel mondo reale, di cui ritualmente ci lamentiamo, ma con cui sempre più sembriamo rassegnanti a convivere.

E il bilancio dei primi decenni della “rivoluzione digitale” che avrebbe dovuto facilitarci la vita e proiettarci in un futuro mirabolante, è francamente un disastro.

Psicopatologie di massa a parte, molto dipende anche da errate interpretazione di parole e termini, che deformano il pensiero e il linguaggio, e il modo come ci muoviamo e agiamo in un mondo in cui – oggi citano Elon Musk, che ha appena contribuito al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, ma non è una novità, altri l’hanno rilevato e io lo scrivo da tanto tempo – il potere del pensiero “popolare”, amplificato a livello planetario dalle reti sociali, di influenzare perfino la politica mondiale, rappresenta un fatto assolutamente nuovo e dalla cui comprensione e gestione dipende una parte importante del nostro futuro.

 

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Passaggi evolutivi (in più direzioni)

C’era una volta la differenza tra analogico (flusso di informazioni continuo di suono, immagini, colore, il più o il meno che rendono dettagli e sfumature) e digitale (flusso discreto, separabile in unità sempre più piccole e distinte, 0 o 1, sì o no, che arrivano comunque a codificarsi in modo estremamente raffinato e preciso). Il digitale stava all’inizio nell’esperienza diretta di pochi umani, i professionisti dei linguaggi informatici. Poi ci fu un periodo in cui anche le persone comuni poterono averne una pallida idea, quando i primi personal e home computer degli anni Ottanta venivano venduti con annesso il linguaggio di programmazione BASIC, oppure nella scuola si incominciava a usare il LOGO. Erano linguaggi di “alto livello” (cioè simili per comodità alle lingue degli umani (il BASIC all’inglese, il LOGO alle diverse lingue nazionali), e di “digitale” avevano soprattutto che certe approssimazioni del linguaggio corrente non erano ammesse e obbligavano a una insolita precisione: il programma sul PC non girava se trovava nel listato anche solo uno spazio in più, una virgola in meno. Anche il rutilante videogioco era l’effetto di una programmazione estremamente pedante, di istruzioni e comandi dettagliatissimi e noiosi.

Per poter essere venduti nel giro di pochi anni a un pubblico di miliardi di consumatori, PC e telefonini hanno dovuto presto presentarsi agli umani con interfacce che di digitale non avevano in pratica più nulla.

Il mouse o il dito si muovono in ambienti totalmente analogici, anzi di più, in metafore della scrivania, delle pagine di un libro, di spazi inediti fluidi e trasformabili con gesti sempre più istintivi che non richiedono alcuna preparazione tecnica, ma solo di essere scoperti e giocati per prove ed errori, come è nell’esperienza soprattutto dei bambini, quando sperimentano il mondo.

 

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È per questo che i giovanissimi sembrano più “competenti” riguardo alle tecnologie, perché usano il il PC e il telefonino come una palla, un tamburo, una macchinina, esplorandone le possibilità immediate con una libertà di pensiero che l’adulto di solito ha perso. Fino a che anche loro non vengono istruiti e incoraggiati ad adeguarsi alle regole di un mercato che ci racconta che le macchine possono scrivere, disegnare, montare i video per noi, meglio di noi. I “nostri” scritti, disegni, video!

Creatori vs consumatori

Negli anni Novanta (altri tempi!), in una pagina Apple che si occupava di educazione veniva messa in risalto la frase di un bambino: “Allora, il computer è il mio servo!” In quello stesso periodo, io nelle scuole facevo giocare i bambini, dai 5 anni in su, con oggetti immagini, oggetti testo, oggetti suoni, di cui “programmavamo” insieme azioni e interazioni, fino alla realizzazione di opere multimediali interattive. Altro che “razza in via di apparizione”, come scrivevano certi entusiasti delle generazioni “native”! I ragazzini della app generation degli ultimi decenni – che anche quando giocano non provano, non sperimentano, ma dalle macchine digitali pescano in “cataloghi” di effetti predefiniti. Sono sempre meno coscienti che possono essere loro a dire alle macchine quello che devono fare e – qualche dato scientifico sarà da recuperare, ma è evidente nella realtà e ci si può tranquillamente scommettere – per la prima volta sta succedendo che i giovanissimi degli anni 2020 sono meno competenti in “tecnologia” di quelli di qualche anno prima. E l’intelligenza artificiale, in assenza di una cultura informatica di massa che non sia di puro possesso degli aggeggi, diventa una sorta di stagione recente di una serie iniziata decenni fa con le storie del Grande Fratello, degli Avengers, dei cartoni animati dei Pronipoti, del mitico HAL di 2001, Odissea nello spazio

Tornare ad alfabetizzarsi

Non so bene a che punto siamo oggi e cosa stia succedendo con il coding nelle scuole. Certo un corretto avvicinamento al digitale, anche solo attraverso pillole di programmazione, potrebbe favorire un rapporto con le macchine non basato solo sul consumo e sulla fantascienza. Potrebbe far capire per esempio che i famigerati algoritmi sono alla fine ideati e decisi da noi umani, e che quello che ci farà intelligenza artificiale dipende essenzialmente dalle intenzioni di chi la usa (che è poi quello che mi ha risposto, quando le ho fatto la domanda, l’intelligenza artificiale!). Potremmo, pensando un po’ più “digitale”, imparare a considerare che non sono esattamente la stessa cosa il maggiolino e lo scarafaggio, lo zafferano e la lavanda…

Mielizia

Saperenetwork è...

Paolo Beneventi
Paolo Beneventi
Alcuni libri: I bambini e l’ambiente, 2009; Nuova guida di animazione teatrale (con David Conati), 2010; Technology and the New Generation of Active Citizens, 2018; I Pianeti Raccontati, 2019; Il bambino che diceva le bugie, 2020. Video: La Cruzada Teatral, 2007, Costruiamo insieme il Museo Virtuale dei Piccoli Animali, 2014; I film in tasca, 2017; Continuavano a chiamarlo Don Santino, film e backstage, 2018.
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