Varianti, quando dobbiamo preoccuparci? Ecco perché i virus mutano
Inglese, sudafricana, brasiliana, indiana e ora anche francese. La lista delle varianti del nuovo coronavirus sembra aumentare a vista d’occhio. E il loro numero, a dirla tutta, è estremamente più alto. Che i virus mutino, infatti, è del tutto naturale. Ma allora, quando è giusto allarmarsi?
Sono già oltre 100 le varianti del Sars-Cov-2 individuate a livello globale. A seconda dei casi, qualcuna prevale di più, altre meno. Quella inglese, ad esempio, in Italia ora si stima che rappresenti, mediamente, oltre il 90% delle infezioni registrate. Nonostante gli allarmismi alimentati su più fronti, è evidente che se anche solo una di queste varianti fosse stata più temibile, ce ne saremmo già accorti. La mutazione dei virus è un processo evolutivo basilare e non è detto che abbia necessariamente risvolti negativi. In alcuni casi, però, potrebbe essere il caso di preoccuparsi. Andiamo per ordine.
?SEQUENZIAMENTO #VARIANTI #COVID19
?ISS coordina le analisi genomiche dei sottocampioni di tamponi positivi inviati dalle Regioni
➡️Gli invii servono per ulteriori indagini, colture virali e test di neutralizzazione a fini di studio e approfondimento scientifico pic.twitter.com/ozyvUMiKwA— Istituto Superiore di Sanità (@istsupsan) May 13, 2021
Perché i virus mutano?
I virus, entità a cavallo tra la vita biologica e la materia inerte, sono geneticamente incompleti. Per non estinguersi, di conseguenza, non possono fare a meno di infettare altri organismi. Da questi, i virus sostanzialmente prendono quello che a loro manca. Nel farlo possono causare danni, trovare un equilibrio di pacifica convivenza o, addirittura, a lungo termine, favorire un’inaspettata evoluzione di tratti vantaggiosi per chi li ospita. In tutti questi casi, specie nel primo, la battaglia però è tutt’altro che impari. Gli organismi infettati, infatti, usando come arma il loro sistema immunitario, tentano in tutti i modi di debellare l’intruso. E sono proprio questi meccanismi di difesa ad agire come pressione selettiva per l’insorgenza di una maggiore variabilità genetica nei virus. Questi, nel tentativo di aggirare le difese, contrattaccano sfoderando nuove armi: nuove mutazioni che si accumulano determinando, in definitiva, una nuova variante. Tutti i virus, quindi, mutano, ma fortunatamente non tutti allo stesso modo. Quelli che hanno solo il DNA, ad esempio, mutano meno di quelli che hanno solo l’RNA. Inoltre, tante più persone un virus infetta, tanto più elevato sarà il tasso di mutazione e tante più varianti si formeranno. E questo vale anche per la durata dell’infezione in un singolo individuo. Non dovrebbe quindi sorprendere che ad oggi si parli di varianti.
Nuovi e più letali. O forse no
Tornando al Sars-Cov-2, ecco come stanno le cose. Il nuovo coronavirus, in quanto tale e in quanto agente virale a RNA, tende a mutare molto frequentemente. Tuttavia, nessuna delle sue ‘forme alternative’ emerse, attualmente, sembra rappresentare un reale problema. Le nuove mutazioni, in alcuni casi, potrebbero però rendere il virus più contagioso o più letale. Oppure ancora conferire ad esso resistenza a terapie o vaccini. Sebbene in qualche caso si sia parlato di maggiore trasmissibilità delle varianti, quel che conta è che – come hanno confermato gli ultimi studi – non sia diminuita l’efficacia dei vaccini. C’è da dire poi che se il virus diventasse più letale, dal momento in cui dipende dall’organismo che lo ospita, a diminuire sarebbero anche le sue stesse chance di sopravvivenza. Quindi – come ricorda il buon vecchio Darwin – tale tratto sarebbe evolutivamente svantaggioso e quindi è meno probabile che si affermi. Una maggiore contagiosità, tuttavia, alla lunga, potrebbe comunque determinare un aumento nel numero dei decessi. «Ciò che osserviamo – rassicura però il professor Fausto Baldanti, dell’Istituto di virologia dell’ospedale San Matteo di Pavia, intervistato da Repubblica – ci porta a pensare sempre più convintamente che il virus stia finalmente incontrando una fase che potremmo definire di declino. Non può mutare all’infinito, ovvero, al livello della proteina spike (quella che si ancora alle cellule per infettarle), non può trasformarsi più di tanto e quindi potrebbe convertirsi definitivamente in un virus umano a bassa intensità».
What made the now-globally dominant G-form #SARSCoV2 strain so successful may also be its weakness, according to a new study of the Spike protein.
Read more in Science Advances: https://fcld.ly/8hl39kr
Pubblicato da Science su Domenica 18 aprile 2021
Effetti collaterali di decisioni avventate
Ancora meglio sarebbe, qualora le cose dovessero cambiare, che non vari l’effetto antivirale di eventuali terapie farmacologiche. Anche se, al momento, ancora non disponiamo di una cura mirata ed efficace contro la Covid-19. Discorso a parte quello che sta invece accadendo in Gran Bretagna. Qui, infatti, sembra che la variante indiana stia dando filo da torcere al paese europeo con le più alte percentuali di vaccinati. Sebbene i numeri dei nuovi contagi siano ancora relativamente bassi, ad allarmare è che ad essere ricoverate ora sono anche le persone che hanno già ricevuto il vaccino. Il mistero, però, è stato – si spera – presto risolto. Quello che sta accadendo, probabilmente, è un effetto collaterale di una decisione presa dal governo di Londra qualche mese fa: ovvero, vaccinare – intanto – con una sola dose, il numero più alto possibile di persone. «Una pessima idea – ha commentato il virologo Roberto Burioni con un tweet – ma fortunatamente l’efficacia della vaccinazione completa (mRNA) sembra mantenuta».
In attesa di una trasformazione “utile”
In definitiva, l’esito più probabile rimane quello di un passaggio da una condizione epidemica ad una endemica. In altre parole, la patologia Covid-19 si presenterebbe via via in forme sempre più deboli, con tassi di letalità confrontabili o persino inferiori a quelli dell’influenza stagionale. A confermare questa ipotesi, è stata una recente analisi condotta da un gruppo di ricercatori americani. Dall’elaborazione di un modello matematico, basato su parametri relativi ad altri coronavirus umani con i quali conviviamo, è emerso che lo scenario più plausibile sarebbe il seguente. Il nuovo patogeno, come è già successo, in una prima fase, interessa una popolazione con cui non era mai entrato a contatto prima causando una malattia severa nei gruppi più vulnerabili. Segue una fase progressivamente più lieve nella quale gli individui si infettano da giovani e proseguono a reinfettarsi con cadenza periodica. Confidiamo che tale scenario si avveri, e chissà, magari un giorno scopriremo che anche il Sars-Cov-2 ci avrà conferito qualche innovazione genomica utile alla nostra specie.
Le varianti del Covid-19 devono essere rinominate con le lettere dell’alfabeto greco per evitare di stigmatizzare le nazioni in cui sono state rilevate per la prima volta. Lo ha annunciato l’Organizzazione mondiale della sanità #ANSA https://t.co/sU2B42czQE
— Agenzia ANSA (@Agenzia_Ansa) June 1, 2021
Saperenetwork è...
- Laureato presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" in Scienze Ambientali prima, e in Ecobiologia poi. Attualmente frequenta, presso la medesima università, il corso di Dottorato in Scienze Ecologiche. Divulgare, informare e sensibilizzare per creare consapevolezza ecologica: fermamente convinto che sia il modo migliore per intraprendere la via della sostenibilità. Per questo, e soprattutto per passione, inizia a collaborare con diverse testate giornalistiche del settore, senza rinunciare mai ai viaggi con lo zaino in spalla e alle escursioni tra mare e montagna
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