La sua cresta così importante, tra l’ocra, il bianco e il nero, il suo becco lucido e arcuato, il volo sfarfallante con le ali zebrate: così appare di colpo l’upupa, il più eclatante tra i tantissimi migratori che arrivano in Europa dall’Africa per darci il saluto della primavera. Lei arriva a maggio, di solito, insieme ai gruccioni coloratissimi e alle ghiandaie marine che in volo esplodono di un blu elettrico che non ti aspetti. L’upupa ha appena compiuto in questi giorni il suo ciclo riproduttivo. I giovani si sono involati da poco e restano vicino al nido che la coppia ritrova ogni anno nella cavità di un grande albero o nell’anfratto di un rudere, un muro, una cascina. Le upupe giovani sono in cerca di grossi insetti, persino di lucertole: imparano a cercare cibo e a volare con la grazia che le contraddistingue.
La coraggiosa migratrice africana calunniata
L’upupa mi affascinò da ragazzo quando la vidi per la prima volta in volo nell’oliveto di mio nonno vicino Palestrina. Poi quando la rividi in Egitto, sul bordo del Nilo, troneggiare sulla testa delle colonne di un tempio della XVIII Dinastia in una località lontana dal fragore del turismo. Era il 1965 e, insieme agli archeologi della Sapienza di Roma, ero addetto a disegnare e a fotografare i reperti di uno scavo che si svolgeva a pochi passi da Antinoe, la città romana che l’imperatore Adriano fece costruire sulla riva del fiume in ricordo del suo favorito morto tragicamente in quel luogo. Le upupe, avevo 22 anni, mi facevano compagnia all’alba con il loro canto ritmato e ripetuto, forse un po’ triste, forse come fosse stata la nenia lieve di un tamburo africano. «Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti». Mi soffermai, tornato a Roma, su questa strofe ritrovata nelle pagine di una delle più famose raccolte di Eugenio Montale, “Ossi di Seppia”. Uno dei nostri più grandi cantori del Novecento, grande amante della Natura maiuscola, prendeva le difese di uno degli uccelli più fascinosi che possiamo ammirare nella penisola italiana ma anche in molte parti d’Europa. La mia riconoscenza allora va al nostro grande poeta che volle difendere l’upupa definita in passato lugubre, persino portatrice di sventure o cose del genere.
Non lugubri, ma ilari. E da difendere
Nel seguito della mia vita ho salutato con gioia il fatto che l’upupa divenisse il simbolo e il logo della Lipu, la benemerita lega italiana per la protezione degli uccelli. E che fosse protetta e cancellata dalla lista delle specie cacciabili. Di anno in anno ne seguo la storia, il divenire, la sua vita di migratore, coraggiosa e pericolosa per tutto quello che deve sopportare nel percorrere migliaia di chilometri, nell’attraversare d’un balzo il Mediterraneo dove si spara a primavera, il Libano, a Malta, a Cipro, senza regole. Quando la sento cantare dopo i mesi invernali mi rallegro. La cerco, senza infastidirla. Nei giorni scorsi si è alzata in volo lungo un viale di ippocastani a pochi metri dalla casa di Roma, facendomi battere il cuore. Così l’ho disegnata ancora una volta e la regalo a Sapereambiente, insieme a una vecchia foto in bianco e nero del 1965 che raffigura il tempio di Ramses II. Proprio lì dove le upupe, la cresta bene in alto, si pavoneggiavano “ilari”, come ben le definì Eugenio.