Pace, la terza via necessaria. A colloquio con Giorgio Beretta

L'analista Giorgio Beretta

Il 24 febbraio le forze armate russe invadono l’Ucraina. Ritorna un incubo per gli europei. Ritorna la guerra in Europa. Un tragico evento che pensavamo non si sarebbe più verificato. Eppure, ci fa notare Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal) e Rete italiana pace disarmo (Ripd),

«I segnali ci sono sempre stati, bastava vederli.

«Innanzitutto né gli Stati Uniti né la Russia hanno mai abbandonato la dottrina delle “zone di influenza” secondo la quale ciascuno considera sotto il proprio controllo una porzione di mondo, in particolare dell’Europa, secondo la spartizione degli accordi di Yalta. I segnali si sono intensificati soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino con l’avvento di diversi conflitti regionali già all’interno dell’Europa (ex Jugoslavia, Bosnia, Kossovo…) e poi in diverse parti del mondo tra cui Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Yemen, ecc. Paesi che sono stati utilizzati come “teatri di guerra” per combattimenti per procura, utilizzando di volta in volta forze militari di governi alleati o amici o milizie locali sostenute con denaro e armi».

 

La città di Lysychansk, nel Luhansk, in Ucraina (Foto: Wikipedia)

 

Giorgio Beretta spiega che lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ha definito questo tipo di situazioni «conflitti internazionalizzati interconnessi». Gli interessi e le mire delle due storiche potenze (Stati Uniti e Russia) si intrecciano o si scontrano con quelli di nuovi protagonisti della scena mondiale come la Turchia e i Paesi Arabi, mentre comincia a profilarsi l’ombra lunga della Cina. In questo scenario non mancano i Paesi europei, spesso in contrapposizione tra loro. E in competizione. Basterebbe pensare alla questione libica. Per comprendere ciò che sta accadendo in Ucraina, quindi, dovremmo, secondo l’analista, prendere in considerazione tutti questi aspetti: le tensioni per le rispettive zone di influenza e i conflitti internazionalizzati interconnessi che non sono mai finiti come appunto la situazione del Donbass, dove c’è una guerra in atto dal 2014.

Non solo Ucraina ma anche Libia, Palestina, Siria, Yemen, Afghanistan, Iraq. Le guerre sono tutte uguali?

Le guerre sono tutte uguali per le vittime che solitamente sono nella gran parte tra la popolazione civile. Ma sono tutte uguali anche per le industrie militari che utilizzano questi conflitti per testare nuovi sistemi di armamento per poi proporli col marchio “testato in teatro di guerra” nel mercato internazionale. Sono differenti invece per quanto riguarda gli attori in campo e le potenze coinvolte, spesso anche dietro le quinte. Ogni guerra ha una sua tipicità e delle sue origini specifiche, una diversa durata, ma come dicevo sono tutte profondamente interconnesse. E finché non si risolve la questione israelo-palestinese, che è ormai un cancro più che decennale, l’area del Medio oriente continuerà a rimanere una polveriera.

 

Le guerre sono un affare anche per l’Italia?

Certamente. Per l’Italia ma anche per tutti i Paesi dell’Unione Europea che in questi anni hanno accresciuto, col sostegno dei rispettivi governi, le proprie esportazioni di armamenti proprio nelle zone di maggior tensione come il cosiddetto “Mediterraneo allargato”, la zona che dal nord Africa si estende lungo il Medio oriente fino al mar Nero e al mar Caspio. Tornando al conflitto in Ucraina va segnalato che per diversi anni i Paesi europei, compresa l’Italia, hanno inviato svariarti milioni di euro di armamenti sia all’Ucraina che alla Russia.

Le forniture verso la Russia sono continuate anche dopo l’entrata in vigore dell’embargo di armamenti deciso dall’Unione Europea nel luglio del 2014 grazie ad una clausola che permetteva di continuare ad esportare sistemi militari i cui contratti fossero stati firmati prima del 2014.

È un classico esempio di come, anche di fronte ai conflitti, i governi europei sono riluttanti a porre limiti alle esportazioni di armi. Queste esportazioni servono principalmente a sostenere le proprie industrie di armamenti che sono in concorrenza tra loro per accaparrarsi ordinativi soprattutto in quell’aera del Mediterraneo allargato che ho descritto. E questo evidenzia il principale problema: l’industria europea degli armamenti, che dovrebbe servire e garantire la nostra sicurezza e la nostra difesa, esportando sempre più armi nelle zone di maggior tensione del mondo alimenta quei conflitti che poi causano non solo morti, disastri umanitari e ecologici, ma che hanno come effetto le migrazioni e che – come si è visto in Afghanistan, Iraq e Libia – favoriscono la formazione di gruppi terroristici di matrice islamista sempre presenti in ogni teatro di guerra.

 

La battaglia di Aleppo (Fonte: Wikipedia)

 

Macron ha dichiarato che bisogna intensificare gli investimenti in armamenti. La Germania ha annunciato di investire cento miliardi di euro per l’esercito…

Non solo Francia e Germania ma anche l’Italia ha deciso di aumentare le spese militari. Lo ha annunciato il presidente del Consiglio, Mario Draghi, lo scorso 29 settembre. «Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora», aveva detto presentando il documento in vista della legge di Bilancio e l’ha subito fatto. La spesa militare di quest’anno supererà il muro dei 25 miliardi di euro (25,8 miliardi) con un aumento di 1,35 miliardi, ma vanno poi aggiunti gli stanziamenti di altri ministeri, ha reso noto l’Osservatorio Milex analizzando il bilancio previsionale dello Stato per il 2022. Dal 2017 la spesa militare italiana ha continuato a crescere soprattutto per l’acquisto di nuovi armamenti: sono ben 8,3 miliardi di euro stanziati nel 2022, un miliardo in più rispetto al 2021 ed un record storico.

E nei giorni scorsi la Camera ha approvato un ordine del giorno per incrementare ulteriormente le spese per la Difesa per arrivare a breve al 2 per cento del Prodotto lnterno Lordo.

Se diventa legge, questo significherebbe che la spesa militare passerebbe dagli attuali 26 miliardi all’anno (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno). Si tratta di una follia, innanzitutto perché i paesi europei della Nato, nel loro insieme, con oltre 250 miliardi di dollari di spesa militare annuale rappresentano già adesso la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti (800 miliardi di dollari) al pari della Cina (circa 250 miliardi) e molto di più della Russia (circa 80 miliardi). Ma soprattutto perché, come vediamo proprio in questi giorni, anche di fronte ad una aggressione come quella della Russia all’Ucraina, sono impossibilitati ad intervenire.

 

Soldati ucraini durante l'esercitazione Saber junction,
Truppe ucraine durante Saber Junction, l’esercitazione multinazionale interforze con 19 paesi, in Germania nel 2018 (Foto: Wikipedia)

 

Cosa manca quindi all’Europa per scongiurare nuove aggressioni?

Ciò di cui l’Europa necessita non sono nuovi armamenti, ma di capacità diplomatiche e soprattutto di un nuovo modello di difesa, indipendente dalla Nato – che andrebbe al più presto convertita in una forza di polizia internazionale a disposizione delle Nazioni Unite –, commisurato sulle effettive esigenze di difesa e di sicurezza dei Paesi europei: un modello di difesa che includa a pieno titolo la difesa civile non armata e nonviolenta, corpi civili di pace, di diplomazia popolare internazionale…

La guerra si combatte anche con la propaganda e la disinformazione. Quali effetti negativi potrebbero avere sull’opinione pubblica?

Li stanno già avendo da anni, ma in questi giorni propaganda e disinformazione si sono fortemente accentuate. L’effetto che stiamo vedendo è quello di una forte polarizzazione dell’opinione pubblica che porta ad ostracizzare chi la pensa diversamente o si azzarda a criticare le posizioni del governo. Lo si vede, ad esempio, riguardo alla critica circa l’invio di armi da parte dei Paesi europei all’Ucraina:

chi, pur denunciando chiaramente l’aggressione da parte della Russia al Ucraina, solleva delle obiezioni viene definito come “putiniano”, “nemico della resistenza ucraina” o peggio “pacifista da salotto”.

 

Particolarmente negativa è la caricatura che viene fatta del movimento pacifista da parte di numerosi e prestigiosi editorialisti sempre presenti nei vari salotti televisivi. E tranne in qualche rarissimo caso come “Presa Diretta”, la gran parte dei talk show televisivi in tre settimane di conflitto in Ucraina non ha ritenuto opportuno invitare nemmeno un esponente del movimento pacifista. Se n’è accorto addirittura l’ex sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto, che in un tweet ha scritto: «Perché in televisione non chiamate i pacifisti di sempre, quelli che lo sono da anni, decenni, in ogni guerra, senza avere simpatie se non la pace?».

I pacifisti sostengono che inviare le armi all’Ucraina non sia una soluzione per giungere alla pace. Eppure per una parte dell’opinione pubblica e della politica questo è un messaggio ideologico o addirittura un modo per difendere l’aggressione della Russia. Perché non è così?

Innanzitutto va detto una cosa che pochi conoscono: più del 55% degli italiani non è favorevole all’invio di armi in Ucraina, ma questo dato ancora una volta è stato in gran parte celato dai maggiori organi di informazione. Venendo alla domanda. Di fronte ad una aggressione armata come quella da parte della Russia nei confronti dell’Ucraina le possibilità sono sostanzialmente due:

 

 

intervenire militarmente, ma a meno che non si voglia entrare in guerra, questo si può fare solo su mandato da parte delle Nazioni Unite e con modalità precise. Oppure mettere in atto ogni strumento di pressione possibile, tra cui – oltre alle sanzioni economiche – forme di pressione nonviolenta, come ad esempio la presenza nella zona di conflitto di corpi addestrati all’interposizione pacifica che possono essere sia nazionali che internazionali. La via di mezzo che si è scelta, quella cioè di inviare armi all’Ucraina, che va inquadrata nel contesto della chiamata alle armi obbligatoria per tutti gli uomini dai 18 ai 60 anni, di fatto significa una militarizzazione della società che espone la popolazione ad una escalation della violenza che non sappiamo dove può condurre. Andavano invece tentate altre soluzioni di tipo nonviolento, ma per metterle in atto occorre prepararsi. Avrebbero potuto prepararsi sia gli ucraini, che invece in questi anni hanno continuato ad predisporre solo modalità di difesa armata e militare, sia gli europei, che non dispongono come dicevo di mezzi di difesa civile non armata e nonviolenta.

 

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Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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