A Rio de Janeiro nel 1970, nonostante la dittatura militare, la vita di Rubens Paiva, ingegnere ed ex deputato del Partito laburista brasiliano, di sua moglie Eunice Facciolla Paiva e dei loro cinque figli sembra un’eterna, amorevole, colorata estate. O almeno così sembra, perché così ce la presenta Walter Salles nelle prime inquadrature di Io sono ancora qui. Il film, reduce da una sfilza di premi tra cui l’Oscar al miglior film in lingua straniera e il Golden Globe alla miglior attrice (Fernanda Torres), è tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva, ultimo dei cinque figli di Rubens e Eunice e amico personale dello stesso Salles, che torna così nel natìo Brasile, anni dopo il successo di Central do Brasil.


La vera protagonista
Raccontare una delle pagine più tetre della storia del proprio paese non è cosa facile. Per farlo, splendidamente, il regista parte da una storia personale, a lui vicina (quella dell’amico Marcelo), che è anche storia corale, quella di una grande famiglia, che si allarga fino a comprendere l’arco di almeno trent’anni. Nelle prime sequenze vediamo i Paiva tutti in spiaggia, i cinque fratelli (quattro sorelle e, appunto, il piccolo Marcelo), alle prese con l’irruzione rocambolesca in scena (e sulle loro costruzioni di sabbia) di quello che di lì a pochi minuti diventerà il sesto componente della famiglia: il piccolo randagio Pimpao, che Marcelo adotta immediatamente. Eunice è in acqua.
La vediamo mentre galleggia combattuta tra la voglia di rilassarsi e la crescente angoscia per il sottofondo perturbante e ininterrotto degli elicotteri che sorvolano i cieli del Brasile golpista. È con l’apparentemente minimo ingresso come sottofondo dell’unheimlich sonoro, che Salles ci dà il primo indizio: di lì a poco, scena dopo scena, capiremo che più che Rubens, i Paiva, la famiglia, la vera protagonista della storia (e del titolo, almeno di quello del film) è Eunice.
Nella casa dei Paiva
Per entrare in casa Paiva dalla spiaggia i passi sono pochi, pochissimi, tanto che Marcelo e i suoi amichetti si muovono scalzi dall’una all’altra. Grande, aperta, elegantemente disordinata, la casa dei Paiva è l’altra protagonista del film: incontro tra esterno (Storia) e interno, tra pubblico e privato, è un posto pieno d’amore, di stanze disposte in modo casuale, con la giusta quantità di chiasso, colori, musica. Aperta, libera, colta, abitata da amici, conoscenti, collaboratori: è qui che vediamo Rubens e Eunice ballare, organizzare feste, ospitare gli amati amici, tutti dissidenti alle prese con un regime che diventa sempre più pericoloso. Se all’inizio temono per la figlia maggiore Vera, studentessa universitaria fermata spesso dai militari insieme ai suoi amici, a pagare il prezzo più alto, con la libertà e con la vita sarà Rubens, prelevato all’improvviso per un semplice “interrogatorio“. Non farà più ritorno a casa.


Gli spettri del regime
La casa, luogo di affetto e di Storia, fino a poco prima piena di musica, danze e soufflé, diviene luogo di spettri, attraversato dagli spettrali uomini di regime e abitato dalla paura. Quando accade qualcosa di terribile, di spaventoso nelle nostre vite, che in questo caso ha a che fare con la Storia, dunque con l’esterno, l’incontrollabile, come reagiamo? Ci sono molti modi, ovviamente. Salles ci racconta che Eunice Facciolla Paiva, nella sua vita vera così come nel film, ha scelto di “essere ancora qui“, nonostante la casa appassisca giorno dopo giorno e nonostante si senta costretta ad abbandonarla per sempre, ormai vuota, piena solo di assenze, rimbombante ancora di echi di musica e balli.
Alla ricerca della verità
Capito che Rubens non farà più ritorno, Eunice si trasferisce a San Paolo, dai genitori, si iscrive a giurisprudenza e diventa avvocata dei popoli indigeni, difendendo persone e territori depredati (un vecchio “problema” brasiliano, si pensi all’Amazzonia sotto Bolsonaro), non smettendo mai di cercare la verità sulla fine del marito. Giocando con gli interni con innovativa sapienza teatrale (lontano dal kammerspiel: gli spazi qui sono continuamente attraversati e messi in discussione, da persone, luci, suoni, voci, fatti) così come con le luci, Salles attraversa almeno quarant’anni di storia brasiliana, passando dai colori saturi così anni Sessanta/Settanta della casa di Rio, al buio gelido delle prigioni di regime, fino alle tonalità tenui e “rassicuranti” degli anni ’90 e 2000.
Dal 1970 al 2014, al centro della Storia c’è Eunice, ed è un ritratto meraviglioso di una donna straordinaria, anche grazie alla splendida Torres e alla sua mamma vera, Fernanda Montenegro, che la interpreta da anziana e che fu protagonista di Central do Brasil: un riuscitissimo gioco di rimandi tra cinema e realtà.


Aprirsi alla vita
Denso di un pathos rarefatto, volitivo e intelligente come la sua protagonista, Io sono ancora qui è, come Central do Brasil, un affresco sociale, “politico” alla Pakula o alla Parker, ma diversamente dai due grandi registi americani, non imbocca la via del thriller. La “risoluzione” del caso Paiva è sotto gli occhi di tutti sin dall’inizio, ciò che preme a Salles è raccontare la storia di una donna (e poi certo, della sua famiglia, del suo paese, di un’intera epoca), che davanti all’irruzione dell’orrore (non manifesto, nascosto, assente e per questo ancora più spaventoso), avrebbe potuto, come ci si aspetta convenzionalmente da una donna, chiudersi a riccio nel privato, nel proprio buco nero melenso, autoreferenziale e “comodo”, tramutandosi nella mamma chioccia che si preoccupa solo della propria prole.
E invece Eunice si apre, ancora di più, apre le porte della sua vita, anche adesso che non può più aprire quelle della meravigliosa casa sulla spiaggia. Ci dice che lei è ancora qui, si mette in gioco, rischia, nonostante il regime e poi ancora, dopo il regime per lottare, cercare giustizia: non (solo) per sé stessa, per il marito e i figli, ma per tutti e tutte, per i più sfruttati, dimenticati, ignorati.


La via più scomoda
È la presenza dell’amore nella sua forma più pura, disinteressata, extra famigliare, quella raccontata da Salles. Come aveva già fatto, d’altra parte, in Central do Brasil: anche in quell’occasione, l’irruzione del caso, del dramma davanti al quale un’altra donna (Fernanda Montenegro, mamma di Torres, appunto), sceglie la strada più scomoda, mai percorsa fino ad allora, rompe la sua routine per aiutare chi ne ha bisogno. Film essenziale per capire un Paese e una dittatura di cui si sa e si parla poco, e un’epoca, gli anni Settanta, che fu periodo di conquiste sociali, di libertà, ribellione, ma anche di lotta armata (come in Italia e in Germania) e di dittature e golpe in gran parte dell’America Latina e dell’Africa, Io sono ancora qui è anche un racconto di cinema e di immagini. Ci sono le foto, ricorrenti, fatte in spiaggia, in casa, sulle scale, appese alle pareti, inviate insieme alle lettere. Foto di gruppo, gioiose come quelle con gli amici, in cui già si intuisce che lo sguardo di Eunice va oltre l’obiettivo del fotografo, intravede le camionette militari sul lungomare che passano in file interminabili alle spalle dei bagnanti. E poi filmini, riprese in super 8, vecchie pellicole mute e sonorizzate dalle lettere scritte e inviate da figli e amici.


Coraggio necessario
Sono sguardi essenziali, come quello di Eunice ormai anziana e (apparentemente) non più lucida, che, inquadrata per svariati secondi da Salles mentre guarda vecchie immagini su uno schermo, durante una riunione di famiglia, riconosce il suo Rubens. Il pathos di Salles, se di pathos si può parlare, è anticonvenzionale, come sono anticonvenzionali i Paiva, com’è anticonvenzionale Eunice: la tensione emotiva anche nei momenti di acme non esplode mai nel melodramma, resta compatta e scorre, tramutandosi in altro, coinvolgendo lo spettatore in un flusso di coraggio necessario ma non autocompiaciuto.
Un film che ci interroga
Visivamente coinvolgente, con una colonna sonora straordinaria, che va dal rock anni Settanta di Erasmo Carlos e Tom Zé alle musiche caraibiche, quello di Salles è un film che ci interroga: quanto e come siamo disposti a restare ancora qui, in piedi, come Eunice, nonostante tutto? Persona, donna e non “mamma santa“, lotta contro il regime, fino al suo crollo e trasforma la sofferenza non in grettezza, ma in uno sguardo che comprende, abbraccia e ci (ri)guarda.


Come gli sguardi delle due grandissime Fernande, che ci ricordano quanto sia necessario lo sguardo del cinema anche per raccontare Storie come la sua.
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