Sono almeno 700 gli israeliani uccisi e quasi 2.400 feriti dopo l’attacco a sorpresa di Hamas dello scorso sabato mattina. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) il numero di persone costrette a fuggire dalle proprie case in cerca di sicurezza a Gaza è aumentato significativamente fino a raggiungere da un giorno all’altro quasi 74.000 persone. Sono 260 invece le vittime accertate al festival Supernova, interrotto dagli spari degli uomini armati. Come al Bataclan, nel 2015.
Hamas e l’orrore davanti agli occhi
Mentre le immagini scioccanti di persone più o meno giovani, donne, bambini rapiti e portati via, in ostaggio, continuano a scorrere nei video postati sui social e in televisione, Israele ha annunciato l’assedio totale della Striscia di Gaza, come ha dichiarato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant: «Non ci sarà elettricità, né cibo, né benzina. Tutto è chiuso». Immancabili i rimandi al 2001, con il portavoce dell’esercito israeliano afferma che “questo è il nostro 11 settembre”, e che l’assalto lanciato da Hamas sabato assomiglia all’attacco contro gli Stati Uniti. Il conteggio di morti, feriti, rapiti, le immagini, le dichiarazioni si susseguono a ritmo incessante, come di consueto, e fanno paura. Come la dichiarazione del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che promette lacrime e sangue, ancora, come se non ce ne fossero state abbastanza, dichiarando che «La risposta di Israele all’attacco di Hamas cambierà il Medio Oriente».
La reazione di Israele e della comunità internazionale
Una minaccia, un programma, una previsione inquietante, mentre si cerca di capire il ruolo di Teheran, quale saranno la reazione di Washington e quella di Mosca e arrivano notizie sugli attacchi alle postazioni di Hezbollah in Libano. L’Ue intanto decide, salvo poi fare marcia indietro su forte pressione della Spagna di Sanchez, la “sospensione immediata” dei pagamenti destinati alla popolazione palestinese in attesa del riesame dei programmi di assistenza già messi in campo per un totale di 691 milioni di euro. «La portata del terrore e della brutalità contro Israele e il suo popolo è un punto di svolta – annuncia il commissario Ue all’Allargamento e la Politica di vicinato Oliver Varhelyi – Le cose non possono andare come andavano di solito».
Gaza, il grande rimosso
Però, ci chiediamo, echeggiando il commissario Ue, ma come andavano le cose di solito? Se per la prima volta nei 75 anni dalla creazione di Israele, le forze palestinesi sono riuscite a prendere il controllo delle aree all’interno della Linea Verde, quanto la questione palestinese è stata poco al centro del dibattito internazionale negli ultimi anni? Il punto è che da almeno un ventennio Gaza è il grande rimosso, uno dei tanti grandi rimossi della comunità internazionale, che si è limitata a contribuire, in modo altalenante oltretutto, solo all’emergenza umanitaria.
Quanto è stato concretamente fatto dopo gli accordi di Oslo del 1993? Si poteva davvero continuare a fingere che tutto fosse normale, a vivere come a New York, Barcellona, Roma o Parigi, come accadeva fino all’altro ieri a Tel Aviv, quando a pochi chilometri c’era la fame, l’odio?
Oggi, dopo 15 anni quasi ininterrotti di governo da parte di Benjamin Netanyahu, ci si interroga sulle falle dei servizi segreti israeliani, ma non abbastanza su quanto una questione come quella palestinese, rimossa, nascosta sotto la sabbia, avrebbe dovuto essere affrontata e non ignorata dalla comunità internazionale. Soprattutto dato il momento storico e geo politico che stiamo vivendo.
Shireen Abu Akleh
Superata la stanca litania del mantra “c’è un aggredito e un aggressore”, ormai ossessione generale, è ovviamente un orrore, quello che stiamo vedendo scorrere davanti agli occhi, un massacro di civili che non può essere giustificato, mai, in nessun caso, eppure non viene dal nulla. Certo, non ha senso confrontare numeri, morti, attacchi. A noi viene in mente un episodio, non certo l’unico, ma uno dei più eclatanti e recenti. Ci viene in mente la collega Shireen Abu Akleh, la reporter palestinese-americana uccisa nel maggio del 2022 dopo essere stata colpita da spari alla testa nel corso di scontri fra miliziani palestinesi ed esercito israeliano nel campo profughi di Jenin in Cisgiordania, mentre preparava un servizio per Al Jazeera. Le indagini sulla sua morte sono ancora in corso, le versioni palestinese e israeliana divergono, ovviamente, sebbene sembrerebbe che Akleh sia stata colpita da colpi di arma da fuoco durante un raid militare israeliano nel campo profughi. L’Fbi ha aperto un’indagine sulla sua morte. Ma noi dobbiamo ancora avere vivide nella memoria le immagini del funebre che trasportava a spalla il feretro della giornalista. Non dimentichiamo, in quest’epoca di immagini veloci, di like, di foto su foto, di commenti fluidi e superficali, le immagini della polizia israeliana, con tanto di caschi integrali ed equipaggiamento tattico, che aggredisce a calci e manganellate la folla attorno alla bara. E se non lo ricordiamo, andiamo a cercarlo, sfruttiamo, ogni tanto, le potenzialità vere e sane della rete, di YouTube, dei social. Non per giustificare l’orrore, ma per capire, per andare a fondo, per non fermarci davanti all’ovvietà di una Storia semplificata.